mercoledì 28 febbraio 2024

A scuola come in ospedale: la scienza insegna e gli insegnanti la devono conoscere

 


Oggi sono a casa, o perlomeno, ci sono tornata dopo essermi alzata come tutte le mattine alle 5, aver preso la macchina ed essermi incamminata verso scuola.

La vita a volte ci mette alla prova, il corpo risponde a ciò che non va: ti dice fermati o ti costringe a farlo come ha fatto con me questa mattina. 


In realtà è cominciato ieri sera facendosi sentire con un forte dolore al petto che passava alla spalla. Il primo pensiero che ti fai a 52 anni è “sto avendo un infarto”. Il secondo pensiero è stato per la mia cagnolina. Pensiero stupido? Forse, ma ho immaginato la sua solitudine e mi sono detta che non era vero niente, che ero solo un po’ agitata perché nelle ultime settimane al lavoro ci sono state incomprensioni tra colleghi.


Sono andata a dormire prestissimo, mi sono messa a letto alle 19:30 pensando che spesso il sonno aggiusta le cose, che il riposo ti permette di vedere meglio le situazioni, e che in fondo nella vita avevo passato di peggio, quindi non poteva accadermi nulla, ero solo stanca.

Ho faticato un po’ a prendere sonno, ma poi ho dormito tutta la notte.


Mi sono alzata che mi sentivo ancora un po’ stanca; la doccia mi avrebbe svegliata e tolta la stanchezza. Ho portato fuori Nocciolina a fare i suoi bisogni e sono partita per il lavoro. 

Sul raccordo però comincio a far fatica a respirare. Faccio grandi respiri nella speranza che sia solo un’impressione, ma quella sensazione di soffocamento aumenta. Sto per uscire sulla Pontina, siamo incolonnati, ho il tempo di rendermi conto che prenderla non sarebbe stata una buona idea ed esco subito per Mostacciano. Accosto, mi viene mal di stomaco, mi aumentano i battiti cardiaci, le mani cominciano a formicolare. Prendo il cellulare e cerco il Pronto Soccorso più vicino. Vicino per modo di dire. Mi dà il Sant’Eugenio, ma scelgo il CTO Andrea Alesini poco più distante perché penso meno affollato. Mantengo la calma anche se ho paura alla guida e arrivo a destinazione. 


Dico di non sentirmi bene, ma la prima cosa che fanno è rimproverarmi di non essere andata a un Pronto Soccorso. Gli rispondo che l’applicazione della Regione Lazio me lo dava come Pronto Soccorso. Palesemente non mi reggo in piedi, ma senza neanche farmi sedere mi danno un foglio da compilare. Solo a quel punto l’infermiere si rende conto che non riesco a tenere la penna in mano e mi fanno sdraiare. Corrono a cercare il medico mentre mi collegano tutti i fili per l’elettrocardiogramma, infilano la cannula al braccio e prendono il sangue necessario per le analisi. Nel frattempo, rispondendo alle domande della dottoressa di turno, fuori dalla porta della stanza di un ospedale, c’è il caos. Infermieri che si insultano con i dottori, volano parole pesanti… Comincio a piangere…


Solo in quel momento capisco perché stavo in quelle condizioni… Solo in quel momento realizzo che due giorni prima, la persona più importante che ho, l’unico amico che mi lega al mio passato dopo la morte di mia madre, mi ha detto che si sarebbe dovuto sottoporre per l’ennesima volta a un intervento al cuore. La paura di questo stava prendendo il sopravvento; il pensiero che anche lui se ne andasse, non riuscivo ad accettarlo. Ma fino a quel momento, dato che ho sempre dovuto dimostrare a me stessa di essere forte, il mio sentire non mi è stato chiaro.


Non mi sarei mai messa a piangere per persone che discutono fra di loro e che nemmeno conosco, ma avevo la misura colma su quello che mi era successo negli ultimi giorni al lavoro e con il mio amico. In quel momento, nell’ospedale, mi sono sentita protetta, qualcuno avrebbe pensato a me, e le lacrime significavano esattamente quello sfogo, quel rilassamento sul senso di protezione che non mi ero potuta concedere prima.

Non avevo avuto modo di parlarne con qualcuno, di sentirmi al sicuro, in qualche modo di sfogarmi e lo ha fatto il mio corpo mandandomi segnali precisi di una situazione fortemente stressante che volevo ignorare o che non volevo sentire. 


E dico questo perché inizialmente, la dottoressa che ha fatto la prima accettazione, aveva stabilito che io dovessi essere ricoverata al sant’Eugenio in quanto la loro struttura non poteva fare accertamenti più specifici, anche se rientrava l’urgenza con la quale erano state fatte le prime indagini, pertanto lei tentava di rassicurarmi. Succede però che c’è il cambio del medico e io vengo lasciata in consegna a un altro dottore. Lui fa la visita nuovamente, rivede i parametri, qualcuno merita di essere indagato, ma tutto sommato mi spiega perché, se ci fosse stato un infarto in corso, le analisi da loro effettuate, avrebbero dato un esito positivo che invece non c’era. Pertanto lui dichiarava che a suo avviso non era indispensabile fare un altro accesso al Pronto Soccorso del Sant’Eugenio seppur il protocollo lo prevedeva. Ovviamente mi fanno firmare che sono io a rifiutare il ricovero, ma questo è un altro discorso.


Quello che è successo, in realtà, è quello che spesso succede anche nelle scuole e in tantissimi altri settori, ovvero creare allarmismo e scaricare il problema sugli altri. In questo caso si scaricava il problema su un altro ospedale, su altri medici, che si sarebbero dovuti prendere la responsabilità di dichiarare quello che un’anamnesi obiettiva già diceva. Ma perché prendersi questa responsabilità se si può scaricare su altri?


Non è stato difficile per me riconoscermi una sintomatologia da stress quando il medico mi ha spiegato in maniera obiettiva per quale motivo escludeva l’infarto. Ho imparato che i dati scientifici se letti e interpretati con cognizione sono attendibili. Ho imparato, soprattutto con il mio lavoro di pedagogista, che guardare in faccia il bambino, parlare con la famiglia e non fermarsi al “sintomo” (disgrafia, discalculia, disortografia, dislessia, ADHD), sono parte della miglior “diagnosi” quando si ipotizzano i disturbi specifici dell’apprendimento, ma dai medici non viene fatta e meno che mai dagli insegnanti. Eppure i migliori libri di pedagogia e psicologia oramai lo raccontano!


Ho imparato che conoscere bene il proprio mestiere, significa sapere quando la didattica e l’impostazione metodologica ed educativa funzionano, usandole, ma eventualmente, anche modificandole in base a chi ti sta davanti. E questo vale per la scienza medica, come per la scienza pedagogica/didattica: non tutti i bambini rispondo all’ambiente come ci vorremmo auspicare, saper vedere e distinguere queste caratteristiche individuali (ambientali), eviterebbe di “intasare i Pronto Soccorso”, eviterebbe l’umiliazione del sostegno, del dispensare e del compensare inutilmente, come prevede il protocollo del Ministero dell’Istruzione. A scuola c’è bisogno di competenza, non di insegnanti che passano la palla, nonostante il protocollo.

Negli ospedali c’è bisogno di competenza, non di medici che passano la palla, nonostante il protocollo.


Ci ho messo un po’ a comprendere il mio “dolore cardiaco” che dalla mente è passato al cuore solo per dirmi “fermati”. Solo per dirmi ricomincia da capo. 

Ma è bastato un pianto; è bastato che mi si ripresentasse indirettamente la condizione di stress (il litigio tra infermieri e medici) per comprendere cosa mi stava accadendo.


I professionisti devono conoscere il proprio mestiere. Non basta una laurea per dire di esserlo.


Scrivere questo, raccontare ciò che mi è accaduto anche ai dottori dell'ospedale, mi ha aiutata a sentirmi meglio; ora sto molto meglio.


Domani sarò nuovamente nell’ambiente che amo di più e che più mi fa stare bene: la mia classe!


Dr.ssa Tiziana Cristofari

© Tutti i diritti riservati


Ecco come distruggiamo la mente dei nostri bambini ecco come distruggiamo la mente dei nostri bambini Ecco come distruggiamo la mente dei nostri bambini cache 40899813 1 210x300 tu@ figli@ va male a scuola? sappi che gran parte della responsabilità potrebbe essere tua. Tu@ figli@ va male a scuola? Sappi che gran parte della responsabilità potrebbe essere tua. cache 40899813 1 210x300

Il libro è reperibile sul nostro sito