mercoledì 15 novembre 2017

DSA: diagnosi e certificazioni senza metodo scientifico. Lettera aperta alle Ministre Lorenzin e Fedeli

Valeria Fedeli (valeria.fedeli@senato.it)
Beatrice Lorenzin (segreteriaministro@sanita.it)

Gentili Ministre Lorenzin e Fedeli, mi chiamo Tiziana Cristofari e sono una pedagogista. Vi scrivo perché credo sia opportuno intervenire urgentemente su quanto sta accadendo nelle scuole.
Partiamo dalla definizione di diagnosi e certificazione. Dunque Ministra Lorenzin, gli esperti dicono che la diagnosi non è necessariamente la certificazione. Fanno questa distinzione spiegando che diagnosticare (ovvero procedere ad accertamenti clinici) non si intende certificare (ovvero dichiarare per iscritto che si è accertata la diagnosi). Ma per usufruire di un PDP (Piano Didattico Personalizzato) o un PEI (Piano Educativo Individuale) di cui la scuola fa richiesta alla prima difficoltà della bambina — spesso con pretesa —, è necessaria la certificazione.
Ministra Fedeli, mi viene da pensare quindi, che anche l’insegnante richiedente la certificazione fa diagnosi. Dico questo perché la ASL (o l’ospedale o altro ente accreditato a farlo), che si adopera per un percorso di accertamento sul disturbo specifico dell’apprendimento, nel 99% dei casi rilascia poi una certificazione. Perché un docente quando richiede un accertamento ha 99% di probabilità che effettivamente tale accertamento venga sottoscritto? Si presuppone che, o gli insegnanti sono oramai “talmente formati” sui disturbi dell’apprendimento che potrebbero andare a fare i medici, oppure i medici dovrebbero cambiare mestiere.
Ma la risposta penso sia più semplice.

venerdì 3 novembre 2017

Ecco la novità che mi avete chiesto! Una home schooling? Una scuola senza zaino? Una scuola nei boschi? Una scuola democratica? Una scuola come quelle del nord Europa? No, unicamente la Home Teacher like at School!

È da diverso tempo che ci penso, anzi, che mi fate pensare.
Poi ieri sono andata dal parrucchiere, ho cambiato acconciatura e ho sentito che era giunto il momento di partire.
No, non voglio andare via dall’Italia, anche se la tentazione è forte, voglio partire con un nuovo progetto che mi permetterà di mettere insieme i pezzi che ho già in mano. Avrei voluto farlo in modo più dirompente, più in grande, per molti bambini: allora in un primo momento mi sono rivolta a vari imprenditori, fondazioni, finanziatori e tutti coloro che pensavo mi potessero sostenere, ma ho trovato un rumorosissimo silenzio (l’Italia è così, se non sei nessuno politicamente o socialmente, intorno a te c’è solo silenzio, anche e soprattutto se ciò che affermi esce dagli schemi imposti dalla stessa politica ed economia, oltre che dal clientelismo).