La incontrai la prima volta un giorno di novembre triste e piovigginoso. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, grosse difficoltà nell’ascolto e rispondeva alle domande con le prime risposte che le venivano in mente: aveva 9 anni, il suo nome era Rosita.
Leggeva a stento e ancora sillabando, non riusciva a capire ciò che leggeva e se doveva comporre una frase non era mai attinente alla richiesta.
Nel primo incontro tentai di chiederle di lei. Avevo bisogno di capire cosa stava succedendo in quel musetto dolcissimo, triste e con lo sguardo costantemente perso nel vuoto. Lei mi rispose che aveva da fare i compiti, mi fece capire che non voleva rispondere alle mie “noiose” domande, lei doveva studiare, perché la mamma le aveva detto che doveva fare quello. Ok, dissi, facciamo quello che vuoi tu.
Così cominciammo a studiare insieme, una volta alla settimana, per un’ora, lei era sempre puntuale: io pretendevo che la famiglia la portasse puntuale alla sua lezione di italiano, storia, geografia, scienze…
Le prime settimane era lei a condurre il gioco: lei diceva cosa fare, come farlo ed io lasciavo che lo facesse. Doveva essere libera di imparare a modo suo, il mio compito era quello di intervenire dove lei incontrava difficoltà.