domenica 12 settembre 2021

Cosa provano le mamme

Cosa provano le mamme
Voglio cominciare con una comparazione.

Un infarto ha specifici sintomi: dolore toracico, fatica a respirare, nausea, stato d’ansia, debolezza improvvisa, battito del cuore irregolare ecc. Un attacco di panico ha esattamente gli stessi sintomi. Solo che il primo, se non si interviene per tempo, porta molto probabilmente alla morte; il secondo no, anzi si potrebbe dire che non porta a niente se non a una grandissima paura per l’interessato.

Se un bambino ha un problema di salute, la prima cosa che la famiglia fa giustamente, è correre dal medico. Due sono poi le reazioni del sentire di mamma e papà: paura se la diagnosi è positiva, leggerezza se è negativa. E voi potreste dirmi che tutto questo è ovvio. Sì, è ovvio, ma penso che molti di voi sappiano anche cosa si prova quando la diagnosi è positiva, ma poi si scopre che era sbagliata, ovvero che era negativa. In questo caso si sente un mix tra paura-leggerezza e rabbia, della quale spesso ci si libera con un pianto e poi con una denuncia. Avete sentito quante agenzie si occupano di chiedere risarcimenti per diagnosi sbagliate? Quando sento le pubblicità di queste agenzie mi vengono i brividi perché confermano un’infinità di errori diagnostici, altrimenti non avrebbero motivo di esistere. E non mi consola nemmeno il fatto che esistano, perché se loro esistono a me il danno è già stato fatto. E non è il danno che può avere un’automobile, ovvero un’oggetto che si ripara e il problema non esiste più, ma è un danno fatto sul mio corpo e sulla mia salute.

Ora arrivo al dunque.

La società medica, scolastica e istituzionale, ha talmente enfatizzato e diffuso la presenza dei disturbi dell’apprendimento (per ragioni economiche e/o di opportunismo) che moltissime mamme e papà non sanno più cosa, dei loro figli, è normale e cosa non lo sia. Sono terrorizzati da una possibile difficoltà cognitiva per il proprio bambino solo se piange troppo; se è vivace; se non sta seduto il tempo che loro reputano necessario; se guarda troppo fuori dalla finestra, ovvero se ha troppo la testa tra le nuvole; se parla con i suoi giocattoli; se inventa storie per giocare; se non si vuole far vestire; se non vuole uscire; se non gioca con i suoi coetanei, ma solo con quelli più grandi; se non socializza con tutti; se non si interessa al gioco per più di dieci minuti; se non mangia tutto quello che ha nel piatto; se non risponde alle domande; se dorme poco; se non contraccambia i saluti; se non siede composto; se non impugna bene la matita; se per colorare usa solo il celeste; se disegna le tombe; se non disegna i capelli ai suoi personaggi; se sistema meticolosamente le matite nell’astuccio; se pasticcia i libri; se scappa di qua e di là nei luoghi a lui sconosciuti; ecc. E sono solo alcune delle realtà che le famiglie mi portano in consulenza spaventati che il loro bambino possa avere qualche “disturbo”. 

È vero che i genitori oggi hanno meno tempo per seguire i propri figli, forse anche meno voglia e che tutto è diventato estremamente complicato; ma il problema vero è che non sanno cosa sia la pedagogia. Quando un genitore si presenta da me e porta una di quelle affermazioni sopra descritte pensando per questo che il proprio figlio sia un problematico (e che fino a 25 anni fa avrebbero fatto ridere a crepapelle pediatri e insegnanti), allora comprendi che il problema è grosso, che è un problema sociale, prima ancora che personale e che non parte dalla famiglia l’interrogativo, ma piuttosto da tutto ciò che la comunità medica, scolastica e politica ha instillato volutamente e/o inconsapevolmente in loro: ovvero la paura che il proprio figlio non sia come la maggioranza. E lo ha fatto tenendo a debita distanza la pedagogia dalle scuole e dalle famiglie a favore della patologizzazione di tutte quelle caratteristiche personali dei bambini sopra descritte.


Non è inusuale che il genitore davanti a me (dopo aver compreso che non c’è nulla di “patologico” nell’essere bambini), cominci a piangere. Come se fino a quel momento fosse stato compresso da una morsa che non comprendeva e che gli impediva di respirare, che lo opprimeva, e solo al sentirsi dire “deve cambiare il pensiero errato che ha nei confronti di suo figlio o figlia”, si libera piangendo. Perché il problema è lì, in quel pensiero represso, in quell’idea sbagliata di non normalità del proprio figlio, in quell’idea di aver fatto male, di non essere all’altezza, in quell’idea in cui gli altri (spesso educatori e insegnanti) ignorantemente e opportunisticamente instillano l’ipotesi che il proprio bambino ha difficoltà cognitive, per cui va aiutato o peggio ancora curato. E siccome tutti oramai sappiamo che il problema psicologico o cognitivo nasce nelle relazioni, i genitori si sentono persi, inadeguati, incapaci, spesso colpevoli.


Il mondo della scuola purtroppo, per volontà politica stupida e ignorante in ambito pedagogico, è stato addestrato a selezionare, incasellare, respingere. Selezionare in quanto il voto scolastico sceglie chi deve andare avanti e chi ha bisogno di sostegno (non certo di recupero); incasella, in quanto chi ha bisogno di sostegno viene etichettato (non certo aiutato a crescere); respinto, in quanto una volta avuto il sostegno ed essendo stato etichettato, verrà giustificatamente rifiutato dal docente titolare di cattedra, che scaricherà il problema sull’insegnante di sostegno facendolo così emarginare dagli altri studenti. Posso solo intuire il dolore dei genitori.


Riprendendo da dove sono partita, mi chiedo a quanti genitori potrebbe essere evitata quella paura da presunto infarto, che invece è solo un attacco di panico. Mi spiego meglio. 

Se i genitori fossero messi nelle condizioni di comprendere meglio il loro operato e le caratteristiche tipiche di un bambino (che non è un adulto e pertanto fa cose da bambino), allora forse quella paura non avrebbe motivo di esistere, né di scatenarsi. In una società in cui non esiste più il bambino in quanto tale, ma esistono solo bambini-adulti, allora è comprensibile che l’adulto non comprenda più il confine tra l’essere bambino e comportarsi come tale e l’essere adulto e comportarsi come tale. Tutto questo è causa della società oramai spudoratamente mercificatoria e opportunistica. Una società che non ha alcun interesse per i più piccoli, né per avere famiglie felici. Le famiglie felici sono meno gestibili, perché meno strumentalizzabili, perché meno fragili. 


Le mamme che soffrono, le fragili appunto, per togliersi da quella sofferenza farebbero di tutto, anche accettare l’idea che il proprio figlio è malato quando non lo è; ciò che conta quando si prova dolore, anche psichico, è che qualcuno lo possa togliere quel dolore, a ogni costo.

Io, come le mie colleghe pedagogiste (chi più chi meno, come ogni altra professione), mi occupo di togliere quel sentire doloroso ingiustificato che nasce nelle errate consapevolezze del proprio lavoro educativo genitoriale e di come si vedono e si percepiscono i propri figli. Restituisco ai genitori la consapevolezza della realtà infantile dei propri bambini, la consapevolezza della realtà educativa che hanno nei confronti dei propri figli; li aiuto ad attuare una migliore pedagogia affinché possano essere famiglie felici. La felicità non si trova nella presunta cura di una presunta patologia dell’apprendimento (che nessuno attualmente ha mai dimostrato), quello è solo un palliativo per togliere il dolore che proviamo quando la società ci fa sentire inadeguate come mamme.


Dr.ssa Tiziana Cristofari

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