Possibile che moltissimi adulti, insegnanti, genitori, medici, non riescono più a vedere la realtà di un essere umano in crescita? Possibile che il business dei disturbi dell'apprendimento sia arrivato a tal punto da essere il perno di ogni attività umana dei nuovi nascituri? È possibile che l'adulto abbia perso completamente la capacità di educare a ogni livello, familiare, scolastico, sociale? Eppure sta accadendo proprio questo. I bambini si pensano subito con qualche deficit se, confrontati ai loro pari, arrivano un attimo dopo.
È il concetto di educazione che manca, che non si conosce e che alimenta questi atteggiamenti di cura compassionevole che porta ulteriori ritardi nell’acquisizione delle competenze di un bambino. Nell’ultimo libro* che ho scritto dicevo questo:
“Cominciamo con il dire cosa non è educazione.
L’educazione non è organizzare una gita ecologica ed ‘educare’ alla salvaguardia della natura, questa piuttosto è istruzione, conoscenza, sapienza di determinati argomenti fatta attraverso una gita scolastica nella natura.
L’educazione non è ‘educare’ alla giusta alimentazione. Di nuovo, piuttosto è istruire alla conoscenza degli alimenti e alla loro corretta assunzione per un benessere fisico.
L’educazione non è dire ai propri figli di non mettersi le dita nel naso, questo piuttosto è bon ton, è non creare disgusto negli altri.
L’educazione non è dire ai propri bambini di non prendere o peggio, rubare, gli oggetti degli altri, questo è piuttosto rispettare le regole del vivere civile e in comunità.
L’educazione non è dire ai propri figli di usare un linguaggio senza parolacce, che non sia sguaiato; questo piuttosto è galateo, buon gusto, raffinatezza, cultura elitaria o comunque raffinata… vogliamo chiamarla civile?
Anche se nel sentire collettivo tutto questo è considerato ‘educazione’ e difatti quando uno dice parolacce o risponde sgarbatamente si pensa sia un ‘maleducato’ ovvero un educato male, oppure quando mangia troppi grassi si dice che non ha educazione alimentare, ecc., in realtà tutto ciò appartiene alla cultura della persona, non alla sua ‘educazione’. Per cultura si intende il patrimonio di conoscenza personale e le caratteristiche dell’habitus (Pierre Bourdieu) in cui quello specifico essere umano è inserito ed è cresciuto.
Un bambino che vive in borgata, dove l’unico posto che conosce è la strada, dove è sempre con le mani e il viso sporco di terra e sudore, dove è abituato a parlare con l’utilizzo delle parolacce, non è un bambino maleducato, né tantomeno ineducato (ovvero che non è stato affatto educato), ma rispecchia un certo stile di vita, di cultura, o sottocultura, o di degrado se preferite, anche se spesso comunemente si dice di ‘educazione’.
Educare non significa imporre in un determinato momento un certo tipo di atteggiamento o comportamento da assumere o linguaggio da usare, questa piuttosto è una pretesa forzata e coercitiva di un adulto su qualcuno che si ritiene inferiore per età, conoscenze o per altri parametri. Pertanto dire cosa non fare, come fare, cosa non dire, quando parlare, come esprimersi; spiegare a parole ai propri figli quale è il modo di comportarsi, quale è la giusta dignità nel comportarsi, non è educazione”.
E allora cos’è l’educazione? Sempre nel mio ultimo libro scrivevo:
“Possiamo cominciare col dire che, l’educazione è ogni atto personale che compiamo frutto del nostro pensiero profondo; è ogni nostro movimento fisico e psichico verso un bambino, un adolescente, un adulto. Non è però la nostra parola; la parola non educa, la parola indottrina, insegna (ovvero trasmette nozioni), forgia, pretende razionalmente che l’altro assuma un certo tipo di atteggiamento e pertanto non educa. Tutto ciò che l’adulto compie in positivo nei confronti di un altro essere umano, in un determinato ambiente, con determinati e specifici stimoli sia di carattere relazionale che di carattere strumentale è un atto educativo che produrrà nell’altro un determinato pensiero e di conseguenza un determinato atteggiamento e comportamento. Se il pensiero determina l’atteggiamento dell’adulto, quest’ultimo a sua volta determinerà un pensiero nel bambino, che si muoverà nel comportamento e nell’azione di conseguenza a quel pensiero. L’adulto pertanto, in base a quello che sarà il suo comportamento, dovrebbe saper intuire il pensiero del bambino che diventerà l’espressione comportamentale del bambino stesso.
Ricapitolando possiamo dire che il pensiero dell’adulto gli permette un certo tipo di atteggiamento e di modo di fare, che produrrà nel bambino un certo tipo di pensiero che a sua volta produrrà un certo tipo di comportamento. Pertanto il pensiero arriva prima del comportamento. Questo sta a indicare che l’adulto per educare in un certo modo deve occuparsi essenzialmente del suo pensiero prima ancora che del suo comportamento e addirittura molto prima della sua parola. La parola non è sempre l’espressione di ciò che veramente si pensa. La parola è molto spesso l’esplicitazione di un’idea razionale, ragionata e pertanto falsa. Chiunque può dire qualunque cosa: ad esempio esprimere parole positive e di speranza, ma avere poi dentro di sé un pensiero e un atteggiamento opposto. Questa modalità di comportamento è tipica di alcuni insegnanti con una falsa parola che è data dalla ragione: quando sono in classe utilizzano un determinato comportamento con i bambini che poi non corrisponde a quello che esprimono con la famiglia. Ad esempio: urlo e grido al bambino perché sono solo e dietro la porta chiusa dell’aula mi sento libero di farlo esprimendo la mia realtà interna, il mio stato d’animo del momento che corrisponde a un profondo pensiero brutto e ovviamente disapprovante; ma poi divento dolcissimo con i genitori o con i colleghi perché temo il giudizio e forse anche il rimprovero. L’atteggiamento che l’insegnante assume con il mondo adulto è proveniente da una parola razionale perché costruita sull’idea del giudizio di un altro adulto e non su ciò che veramente si sente. Mentre l’atteggiamento avuto con i bambini in classe, sentitosi libero di esprimere se stesso, ha rivelato il suo vero pensiero, il suo vero sentire”.
È quel vero sentire che educa. Quel vero sentire che si esprime nei confronti dei bambini porta gli stessi a una crescita o una regressione nell’apprendimento. È il nostro modo di educare che permette ai piccoli di apprendere o non apprendere. Per essere più espliciti: la paura blocca completamente la capacità di apprendere dei bambini, pertanto se a scuola sono spaventati o disapprovati nel loro operato o provano disagio, non apprendono. E questa non è un’idea nata da me, ma una realtà scientifica dimostrata dalla scienziata Daniela Lucangeli; poi chi conosce la pedagogia (e pertanto i processi educativi anche dal punto di vista neurocognitivo), la applica, e allora sì che fa la vera educazione: senza indottrinare, forgiare o plasmare. La pedagogista o l’atto educativo non curano, al più fanno prevenzione, ovvero impediscono il sorgere di tutti quei blocchi mentali che spingono gli insegnanti ignoranti a mandare il bambino in formazione a fare accertamenti cognitivi per questioni prettamente ambientali.
Genitori, diffidate di quegli insegnanti che alla prima difficoltà didattica vi dicono di mandare vostro figlio dal logopedista o dal neuropsichiatra. La vera scuola, quella formata da insegnanti capaci, educa, non cura. Il vero insegnante può dispensare o compensare senza alcun certificato medico, senza dover far sentire diverso lo studente, permettendogli così di raggiungere gli altri con i suoi tempi, con il suo modo di essere, con la propria identità.
Dott.ssa Tiziana Cristofari
Studio di Consulenza Pedagogica Figli Meravigliosi®
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