sabato 25 giugno 2022

Ecco come la scuola primaria lentamente muore


La vita a volte ti costringe a prendere decisioni e cambiare percorso. La pandemia, con me, ha fatto questo.

Più di 10 anni fa aprii uno Studio di consulenza pedagogica pensando che avrei potuto aiutare di più quelle famiglie e quei bambini ingiustamente etichettati come DSA. La pandemia ha reso precaria la mia attività, il “famoso” lavoro a Partita IVA, di cui lo Stato ha ampiamente ignorato l’esistenza costringendomi(ci) a rimettermi in discussione. 

All’età di cinquant’anni, la paura di non sapere come arrivare a fine mese, mi ha costretta, anche se devo ammettere “piacevolmente costretta”, a tornare a scuola. Non ho lasciato la precedente attività, ho semplicemente modificato il mio impegno con orari diversi e, ovviamente, dimezzando e forse anche più che dimezzando, la possibilità di seguire individualmente bambini e famiglie.


Ora però succede che a scuola, i bambini della mia classe, anche quelli che hanno più difficoltà, non subiscono le denigrazioni dei “bambini con DSA”, perché con la pedagogia rispondono a quelle difficoltà didattiche meravigliosamente e l’anno passato mi è parso come se i disturbi dell’apprendimento non ci fossero più. In poche parole è come se avessi vissuto su una nuvoletta tutta mia, in una scuola, fortunatamente, che si pone nel giusto equilibrio prima di etichettare i bambini: decisamente una delle poche scuole! Le insegnanti contano, loro fanno l’effettiva differenza.

Dicevo però che questa nuvoletta bianca, in mezzo a tante nere e cariche d’acqua, mi hanno permesso di vivere la scuola esattamente come dovrebbe essere vissuta: attraverso la pedagogia e la didattica pura, per intenderci, quella che tanti anni fa propose Maria Montessori. Ovvero, quella di un medico psichiatra, ma che per la prima volta nel 1898 parlò di “pedagogia” per quei bambini considerati idioti, alimentando e sottolineando forse concretamente e per la prima volta, il concetto di pedagogia. E badate bene, non ha parlato di cura, né di malattia, né di intervento d’aiuto, né di atipicità, né di sindrome, né di disturbi dell’apprendimento. La Montessori parlò chiaramente di pedagogia e pertanto di educazione. La Montessori definì e costruì la didattica, non parlò di apprendimento speciale, né di strumenti compensativi o dispensativi. Lei organizzò una pedagogia e una didattica valida per tutti e dimostrò come tutti potevano raggiungere i risultati attesi.

A fine anno scolastico, uscendo un po’ di più dal mio mondo ovattato di questa scuola più unica che rara forse, e affacciandomi più spesso su Facebook, leggendo vari articoli, ascoltando i colleghi pedagogisti, o guardano le attività che sono proprie delle associazioni di categoria, ho pensato e poi concretamente fatto, di uscire da quel mondo associazionistico che ha perso l’orizzonte pedagogico e che sento non appartenermi più.


Quando tanti anni fa mi iscrissi per la prima volta a una associazione di categoria, avevo percepito che le colleghe e i colleghi avessero interpretato il mondo della scuola o le difficoltà dei bambini come legati alla didattica o come una carenza pedagogica, e pertanto mi riconoscevo nella categoria. Io ero (sono) una insegnante-pedagogista, non un medico, non un consulente diagnostico, non un riabilitatore. Con il passare del tempo, mi sono poi convinta che la nostra figura, allontanata, azzarderei a dire anche esclusa dallo Stato (prima ignorandoci come categoria, poi con un contentino di riconoscimento ma buttandoci fuori dalle scuole a favore degli psicologi), era alla ricerca di un posticino nel mondo (e come dargliene torto!). Quel posticino però, diventava con il tempo sempre più stretto, la categoria sempre più sconosciuta e denigrata dagli psicologi e dalla società tutta, che non vuole vedere il peso e la sostanza di una professione umanistica unica nel suo genere. È una professione, quella pedagogica, che, guardando alle relazioni umane, fa girare poco l’economia (contrariamente a quella degli psicologi e dei logopedisti che la fanno girare molto); perché allora dovrebbe essere appoggiata, elevata, considerata? Va da sé quindi il bisogno di una “pandemia” dei disturbi specifici dell’apprendimento.


Io sono un’insegnante che per insegnare ha bisogno necessariamente della pedagogia (come ne avrebbero bisogno tutti i docenti dal primo all’ultimo grado di istruzione). 

Ma ora tenetevi forte: la pedagogia non permette l’insorgere dei disturbi dell’apprendimento. Un’insegnante senza pedagogia, è come un medico senza le medicine, la sua professione è svolta a metà. Ma mentre il medico cura, la pedagogista fa prevenzione. È meglio curare o prevenire?

I colleghi pedagogisti pertanto (forse non tutti, ma la maggioranza), non trovando un posticino nel mondo, stanno spingendo la professione pedagogica verso quella medica, fino al punto che oggi, la società che meno ci conosce, ci inquadra in una professione medica pur non essendolo. E allora erroneamente e, a mio avviso, abusivamente, nella categoria dei pedagogisti si parla di: colloquio pedagogico clinico, valutazione delle dinamiche funzionali dell’apprendimento, colloquio anamnestico e funzionale, abilitazione e riabilitazione pedagogica. Come potete vedere tutti termini che ripotano alla medicina, alla cura. Ma la Montessori non aveva detto specificatamente centoventiquattro anni fa “…io però a differenza dei miei colleghi (psichiatri*) ebbi l’intuizione che la questione dei deficienti fosse prevalentemente pedagogica, anziché prevalentemente medica”?


Lavorare nella scuola, in questa scuola dove mi trovo oggi, mi ha ridato quella serenità che lo Studio di consulenza seppur una mia scelta, oggi mi accorgo, mi aveva tolto. Quando pensai che avrei potuto aiutare i bambini etichettati ingiustamente, non avevo considerato che andavo solo a mettere a posto qualcosa che altri adulti avevano alterato e che tutto questo, in qualche modo mi pesava, mi dava sofferenza. Lavorare a scuola mi permette di non consentire a chi è più in difficoltà di entrare in quel vortice di etichettamenti ingiusti, che umiliano bambini e famiglie e tolgono loro un futuro scolastico sereno. Certo, il mio atteggiamento oggi è egoistico, ho come la sensazione di non voler vedere più il dolore di bambini e famiglie, come se volessi coltivarmi solo il mio orticello… e probabilmente così è. 


Il mondo là fuori mi spaventa a morte (sarà la vecchiaia e la stanchezza!): passa sopra a tutti, non ha più rispetto per bambini e famiglie, non ha più formazione adeguata, non conosce, né riconosce più la scienza medica o umanistica che sia. È tutto un minestrone in cui ognuno nella propria solitudine deve imparare a trovare l’insegnante giusto, il professionista qualificato, aggiornato, onesto e capace per far crescere al meglio i propri figli.

Oggi, con un po’ di amarezza, ma con la soddisfazione di essere insegnate/pedagogista, posso guardare avanti e pensare che sì, forse, nonostante tutto, nonostante la tanta spazzatura professionale che ci circonda, nonostante la siccità pedagogica, nonostante la guerra per l’accaparramento all’ultimo bambino diagnosticato, forse la vita, l’essere in vita, ci dà ancora speranza.


Dr.ssa Tiziana Cristofari

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PS: questo articolo è dedicato a due mamme che stimo moltissimo: Antonella Cappelli e Maria Cristina Palermiti.



* Corsivo mio.


 

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