Siamo tutti a conoscenza del raccontino che spesso si fa per giustificare una certificazione di disturbo dell’apprendimento; ovvero che prima delle certificazioni questi bambini con varie difficoltà nella lettura o nel calcolo, venivano tacciati nel passato come degli svogliati, dei pigri, bambini insomma che non avevano voglia di impegnarsi nella scuola. Oggi, secondo la favoletta, tutti questi bambini che dimostrano di avere difficoltà nell'apprendimento scolastico, vengono riconosciuti nella loro “condizione diversa”, diagnosticati come bambini che hanno disturbi dell’apprendimento e pertanto “aiutati” a sentirsi “come gli altri”. Nessun adulto però chiede mai a questi bambini se veramente si sentono come gli altri. Anche perché se lo facessero, la risposta sarebbe un secco “No, mi sento un diverso”, come tutti coloro che vengono da me confessano chi prima chi dopo.
Le diagnosi tanto richieste dagli insegnanti e tanto certificate dai medici, giustificano l’operato del docente, vittimizzano il bambino che poverino non ce la fa — non perché non ha capito la lezione che molto probabilmente non è stata spiegata nel modo giusto o una volta in più, o perché il bambino è vittima di aggressioni verbali e pertanto la sua mente si chiude a riccio senza comprendere la spiegazione che gli si fa, o perché è abbandonato dalla famiglia affettivamente e pertanto non riesce a mantenere la concentrazione che l’anaffettività gli impone —, no certo, non è questo il motivo delle certificazioni. Il motivo, dicono gli esperti, è che c’è qualcosa che non va nello sviluppo della mente del bambino (su base genetica o neurologica) e che però va certificato solo con un metodo deduttivo di “prestazione” didattica. Mi spiego meglio: in terza elementare il bambino non legge fluidamente? Il medico certifica che è un dislessico! Ma non fa analisi del sangue per vedere la genetica cosa gli propone o una tac per vedere se i neuroni sono tutti connessi. Non si chiede quanto esercizio di lettura fa il bambino, se ha imparato a comprendere i suoni delle sillabe e delle trisillabe (che il medico probabilmente non sa neppure cosa sono), o se quel bambino ha un pessimo insegnante a scuola. No, tutto questo il medico non lo fa, però certifica.
Così nasce la favoletta che fa comodo a tutti, giustifica tutti, assolve tutti, ma soprattutto, permette di concretizzare la richiesta di valutazione del docente certificando il bambino senza però approfondimento scientifico medico, che non tiene conto di ciò che avviene in classe o in famiglia, ma alimenta l'industria del farmaco, della psicoterapia infantile, della logopedia, ignorando pedagogia e didattica (le vere imputate dello sviluppo cognitivo), scoraggiando famiglia e bambino, e rendendo quest’ultimo assolutamente incapace di credere in se stesso, assolutamente incapace di pensare di farcela; e facendolo crescere spesso in un ambiente ostile, quale è la scuola, quando un bambino è certificato con un disturbo dell’apprendimento, seppur nell’ipocrisia degli insegnati che lo trattano da “poverino”. Ma soprattutto facendolo sentire un diverso, un emarginato, un futuro e ovvio possibile disperso della scuola italiana, di cui gli ultimi dati sull’abbandono scolastico sono veramente disarmanti: mentre scende in Europa (dal 14,7% nel 2008 al 10,6% del 2018), da noi nel 2018 l’abbandono scolastico è salito al 14,5% tornando ai livelli del 2015.
Ebbene sì, questi bambini non sono svogliati, come la favoletta racconta, sono pienamente d’accordo su questo. Questi bambini hanno una realtà ambientale/relazionale intorno a loro sfavorevole, che gli causa dei rallentamenti, delle difficoltà nella comprensione e pertanto purtroppo portano alla terribile certificazione. Ma non sono d’accordo su questo scriteriato pezzo di carta.
Penso che tutti abbiamo sperimentato almeno una volta quella singolare realtà che accade ai bambini piccoli quando cominciano a camminare o correre e all'improvviso cadono.
Se l'adulto corre dal bambino dicendogli con tono allegro “non è successo niente, capita di cadere, ricomincia a correre, vai, vai a giocare”, il bambino si alza, sorride e ricomincia a correre. Quando invece l'adulto significativo, spaventato dalla caduta spesso senza conseguenze del bambino, corre da lui disperato, chiedendogli se si è fatto male, con una espressione da condannato a morte, il bambino comincerà a gridare e piangere disperato che si è fatto male anche quando non ha un solo graffio.
Bene, nell’attività scolastica, l'inciampare in una tabellina che non si è capita come funziona, l’inciampare in una lettura stentata semplicemente perché non si fa esercizio, funziona esattamente nella stessa maniera.
Se rispondiamo alla carenza o difficoltà senza alterarci, sorridendo, incoraggiando la bambina e spiegandole nuovamente come funziona la tabellina, o incoraggiandola a continuare a leggere anche quando si fa fatica, la bambina risponde innalzando la sua autostima, incoraggiando la sua volontà e superando l’ostacolo. Se invece ci spaventiamo della prima difficoltà, senza chiederci minimamente se possiamo fare di più, se c'è qualche problema nell'ambiente educativo, e la portiamo subito dal medico il quale dirà che ha un disturbo dell'apprendimento e che andrà trattata diversamente da tutti gli altri bambini (compensando e dispensando), la bambina perderà completamente la capacità di aver fiducia nelle sue potenzialità, comincerà a pensare (perché glielo hanno detto), che lei non è in grado come gli altri bambini di fare le stesse cose; lei si autoconvincerà di non essere in grado di fare ciò che fanno gli altri e non proverà nemmeno a farlo, confermando sempre di più una certificazione assolutamente sbagliata (Effetto Pigmalione), priva di ogni nozione psicologica per lo sviluppo cognitivo del bambino, anche se quella certificazione è fatta purtroppo da un neuropsichiatra.
Questo mio dire è dimostrato dai miei studi come ricercatrice indipendente, ma soprattutto da tutti quei bambini certificati, entrati nel mio studio con una totale assenza di capacità di credere in se stessi, con una totale incapacità di credere di poter fare e di potercela fare, e che hanno poi raggiunto gli obiettivi degli altri studenti. Il risultato dell’obiettivo è reso possibile perché ho creduto in loro e nelle loro potenzialità; perché abbiamo instaurato una corretta relazione e adottato una buona didattica; perché ho permesso che coltivasse nuovamente quell’autostima che si era persa con una comunicazione sbagliata dell’adulto; perché ho permesso loro di far crescere nuovamente quella speranza che avevano perso di essere come tutti gli altri, di credere che ce la potevano fare come tutti gli altri; perché gli ho permesso di lavorare sull’attività didattica sconfessando la loro stanchezza, spesso preambolo e "prassi educativa" assegnata da medici e logopedisti di cui il bambino si crogiola poi per far credere all’adulto di essere esattamente come loro hanno erratamente anticipato: stanco; anche quando nessun parametro c’è a dimostrarlo. Questa presunta stanchezza, che di fatto alimenta noia, disaffezione all’attività scolastica, frustrazione, malinconia, rabbia, odio, attiva anche un processo inconscio di vittimizzazione del bambino e di rinuncia al proprio operato, sia del bambino che della famiglia.
dott.ssa Tiziana Cristofari
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