martedì 20 agosto 2024

Ecco perché tuo figlio detesta la scuola


L’ambiente che ci circonda influenza molto l’andamento scolastico dei nostri bambini. Questa è una realtà che non si vuole vedere, né tenerne conto perché farebbe ricadere la causa sull’adulto anziché sul bambino. Noi pedagogisti, abituati a comunicare con tutte le fasce di età, sappiamo che l’essere umano (soprattutto adulto) fa molta fatica ad ammettere di sbagliare, pertanto è più favorevole a far passare il bambino come svogliato o con un disturbo dell’apprendimento, piuttosto che ammettere di essere parte del problema.

Allora forse bisogna elencare gli errori che spesso si fanno affinché la persona intelligente possa riconoscersi e affrontare la questione piuttosto che scaricare la responsabilità sui bambini, che rispondono a questa sofferenza rifiutando la scuola attraverso vari comportamenti: dall’iper attività, dalla difficoltà a stare attenti o, come ben sappiamo, dall’insorgere di tutti quegli ostacoli nella didattica che ci portano a pensare ai cosiddetti disturbi dell’apprendimento (dislessia, discalculia, disortografia, disgrafia ecc.) e di conseguenza, dato l’isolamento e il sentirsi diversi che ne consegue, i nostri studenti cominciano a odiare la scuola.

Ecco alcuni errori che bisogna evitare come la peste.


In famiglia:

  • ogni volta che tentiamo di aiutare i nostri figli nei compiti e cominciamo a perdere la pazienza e urlare: non stiamo aiutando i nostri figli a imparare, ma stiamo ostacolando la loro possibilità di crescita cognitiva e quindi di apprendimento;
  • ogni volta che li “imbocchiamo” più del necessario: facendogli il bidè fino a 6/7 anni a volte anche oltre, preparandogli lo zaino per andare a scuola (in prima primaria dovrebbero essere già capaci di farlo in autonomia), vestendoli anche quando lo sanno fare da soli, ecc., non li stiamo aiutando, ma stiamo cercando di mantenere il controllo su di loro impedendogli uno sviluppo cognitivo adeguato all’età;
  • in tutte le occasioni di liti e violenze, anche verbali: ogni volta che siamo freddi e distaccati, anaffettivi, aggressivi, impediamo ai nostri figli di sviluppare cognitivamente, perché questi atteggiamenti nei loro confronti inibiscono la capacità sinaptica-neuronale;


A scuola:

  • tutte le volte che l’insegnante urla, inveisce e punisce sta inibendo la possibilità di crescita cognitiva;
  • ogni volta che non chiediamo a sufficienza ai bambini di provarci, ma ci sostituiamo a loro pensandoli incapaci, non dandogli fiducia, gli stiamo impedendo di sviluppare le capacità cognitive;
  • ogni volta che li trattiamo diversamente dagli altri, che gli proponiamo compiti diversi, che li compatiamo, di fatto li stiamo isolando, ovvero gli stiamo impedendo di sviluppare le stesse potenzialità cognitive dei loro compagni;


Con il professionista sbagliato:

  • ogni volta che il logopedista (o altro professionista) pretende di far fare esercizio al bambino su acquisizioni didattiche per la lettura, la scrittura e il calcolo con attività monotone, ripetitive e tediose sta insegnando al bambino a odiare la scuola, non certo a stimolare il suo apprendimento;
  • ogni volta che si pensa di aiutare il piccolo mettendolo davanti a un computer (pratica esercitata spesso da logopedisti e psicologi), si sta solo portando il bambino ad uno stadio di assuefazione visiva, inibendo completamente la potenzialità cognitiva che è il frutto di stimoli creativi del fare, del vivere, ma soprattutto della comunicazione interpersonale che il computer annulla completamente.


E in tutti questi casi, ogni volta che l’atteggiamento dell’adulto è anaffettivo (messo davanti a un computer), indifferente alla crescita del bambino (gli semplifico il compito così ho meno da fare), arido di amore e interesse nei suoi confronti (a me non importa che tu diventi più capace, basta che io mi sollevo dal problema), c’è una carenza cognitiva, ovvero qualcosa di umano (anche se sarebbe meglio dire disumano) che ostacola il sereno sviluppo sinaptico-neuronale del piccolo.


L’insegnamento non è un’attività che si improvvisa. Non è sufficiente saper leggere scrivere e contare per essere insegnanti. C’è un detto che dice “chi sa fa e chi non sa insegna”. Vi sembrerà un paradosso, ma il vero insegnante non insegna. Il vero insegnante accompagna i propri studenti alla ricerca e allo sviluppo delle proprie potenzialità cognitive, ma paradossalmente non insegna. E per fare questo, il vero insegnante sa che deve essere pieno di interesse per il suo studente, deve volere che lo studente impari e soprattutto deve aver fiducia nelle sue potenzialità.

Pertanto i logopedisti, gli psicologi che utilizzano la didattica nel loro mestiere senza averne il titolo, molto spesso lo fanno male e altrettanto spesso lo fanno con abuso della professione, considerato il fatto che per insegnare ci sono percorsi accademici abilitanti (Scienze della Formazione Primaria) e per fare attività di consulenza didattico-pedagogica, oggi c’è l’Albo per i pedagogisti (pertanto ogni altro professionista che pretende di fare didattica con i bambini, mascherandosi dietro un titolo della branca medica, lo fa con abuso della professione).


C’è un solo dato fondamentale che bisognerebbe tenere presente quando si parla di apprendimento, ovvero che la stimolazione del bambino è intorno a lui, negli oggetti che utilizza (differenti a seconda delle possibilità economiche della famiglia), nella vita che vive (viaggi, cinema, sport o solo cortile e strada ecc.) e soprattutto, nella relazione con il mondo adulto (ovvero con il tipo di rapporto che l’adulto è capace di instaurare con il bambino). La differenza nel suo apprendimento sta in questi fattori, non nel tormentarlo con esercizietti tediosi e ripetitivi, con le urla, con gli insulti —dire a un bambino “non sei capace” equivale a insultarlo—, o, ancor peggio, con il confronto con i pari o con la competizione a chi raggiunge prima il saper leggere o scrivere o contare, perché, in questa società arrivista e competitiva, se si arriva secondi allora si è problematici, si ha un disturbo. No, non funziona così: ogni bambino ha i suoi tempi, che devono essere rispettati perché frutto di una realtà complessa che circonda il piccolo.

Quindi, prima di voler insegnare a tutti i costi, dovremmo essere abbastanza umili da imparare a non farlo.


Dott.ssa Tiziana Cristofari

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