Secondo la psichiatria, l'invidia è una malattia, ovvero quello che lo psichiatra Massimo Fagioli chiamava ‘malattia del pensiero’. Chi è affetto da invidia non è più capace di distinguere la realtà vera perché mette nell'altro la realtà distorta del proprio pensiero malato. Questo pensiero malato va a colpire la persona che si pensa essere irraggiungibile. Ciò che si invidia non è un oggetto fisico, ma uno stato psichico che non si può comprare, né rubare.
L'invidioso pur di rovinare l'altro è capace di danneggiare anche se stesso perché il suo obiettivo è la distruzione dell'altro e finché non l'avrà ottenuta passerà sopra a tutto.
L'invidia nella sua massima espressione arriva all'omicidio, all'eliminazione fisica dell’altro.
Ma spesso, l'invidia più frequente, agisce con piccoli annullamenti e/o volontà concrete di: dimenticarsi cose importanti da fare o da dire all’invidiato, non ricordarsi di lui/lei in determinate occasioni, ignorarlo/a, ovvero annullarlo/a psichicamente in tutti quegli atti di vita quotidiana per cui la mente pensa di poter ferire o render brutto l'altro.
Come docente professionista in pedagogia ho sperimentato spesso l'invidia su di me da parte dei genitori, dei colleghi e dei datori di lavoro. Ma questo succede in ogni professione!
La maggior parte delle volte il sentimento dell'invidia si è espresso in un atteggiamento di antipatia nei miei confronti, che è sempre l'invidia meno grave, ed è quella che più frequentemente esprimono le persone; ma non sono mancati attacchi calunniosi nel tentativo di sporcare il mio lavoro e la mia persona. Ve lo spiego con un aneddoto.
Lavoravo in un liceo classico insegnavo storia e filosofia e c'era uno studente che durante le sue ore di storia dell'arte fatte con un'altra docente, usciva dalla classe per venire nella mia ad ascoltare storia: lui non voleva stare con quella docente, ma io ne ignoravo le motivazioni.
Quando la docente capì che il ragazzo veniva nella mia classe e che ci rimaneva per tutta l'ora cominciò ad invidiarmi, in quanto non si spiegava per quale motivo il ragazzo riuscisse a stare un'ora dentro la lezione di storia ma non la stessa ora dentro la lezione di storia dell’arte. Un giorno, quella docente, venne a prenderlo di peso dentro la mia classe; lui mi supplicava di rimanere lì e io non ebbi il coraggio di lasciarlo nelle mani di quella donna per cui non era chiara la motivazione di quella ribellione. Mi convocò la direttrice d'istituto dicendomi che io avrei dovuto mandar via lo studente dalla mia aula; le risposi che non potevo tradire la mia professione e che non avrei mai mandato via uno studente che volutamente volesse rimanere nella mia aula. La direttrice comprese la dinamica, comprese le motivazioni per cui io non volevo far uscire dall'aula lo studente, spiegandole che mandarlo via significava non vederlo più a scuola. Alla docente di storia dell’arte, le motivazioni per cui io non facevo uscire dall'aula lo studente, non le bastarono a cambiare atteggiamento, che anzi la rinfocolò nella sua rabbia, pretendendo che la direttrice mi intimasse di mandarlo via: la dirigente arrivò a minacciare il mio licenziamento pur di accontentarla. Detti le dimissioni, nessuno mi avrebbe mai costretta a rovinare uno studente. Lo potevano fare loro ma non per mano mia. Il discorso dell'invidia è assolutamente palese: la rabbia della docente, per la mia capacità di attrarre gli studenti, si trasformò in invidia costringendo la direttrice incapace, a mettersi e a mettermi in una posizione scomoda sino al punto che alla fine ci ha rimesso la scuola, che si è dovuta trovare un altro insegnante e ha perso lo studente. Se pensassi a quell'alunno solo come un cliente, non me ne sarebbe importato nulla: la realtà grave e che seppi poi che lo studente abbandonò la scuola esattamente come avevo preannunciato. L’invidiosa aveva tentato di distruggere me, facendomi togliere l’incarico, ma soprattutto aveva trovato il modo di vendicarsi di quel ragazzo di 17 anni che aveva capito quanto quell’insegnante fosse incapace e glielo diceva ogni volta che preferiva apertamente me a lei.
L'invidia è questa: rabbia, distruzione e soddisfazione di quella distruzione. Per quanto quella soddisfazione non sarà mai esaurita, perché l’invidia è malattia. Pertanto l’invidioso troverà presto altre persone da invidiare per cercare nuovamente soddisfazione alla sua impotenza.
Ma intendiamoci, non c’è solo invidia tra lavoratori, anche tra studenti.
Un caso di invidia nel mio vissuto a scuola fu eclatante. Avevo due studentesse molto brave in classe, solo che una era di una bravura che le veniva spontanea, le nasceva proprio dalla tranquillità che coltivava in famiglia e pertanto da una situazione di assoluta serenità. L'altra bambina invece era molto brava per competizione: lei aveva bisogno di sentirsi dire che era brava perché aveva una carenza affettiva molto profonda proveniente dalla famiglia, quindi si sentiva brava solo se lo era più degli altri. La trovai a strappare le pagine del quaderno della compagna per rovinarle il lavoro fatto. Era un quaderno bellissimo e la studentessa invidiosa per un sentire interno irrefrenabile lo doveva rovinare, doveva tentare di sporcare il lavoro della compagna, doveva distruggerlo, eliminare un qualcosa realizzato da una mente che lei pensava irraggiungibile: ovvero le possibilità psichiche della compagna di classe. Colta sul fatto le chiesi perché lo avesse fatto e cominciò a piangere. Lei certo non poteva avere la spiegazione a quel gesto che sentiva provenire da dentro e di cui non comprendeva la motivazione, ma sentiva che aveva bisogno di farlo: quella è l’invidia. Una ragazzina già alterata nel pensiero da continue situazioni affettive deludenti. Quel pianto sciolse in parte la sua rabbia, tentai di spiegarle con affettività che le sue capacità erano valide quanto quelle della compagna, che non aveva motivo di commettere quel gesto, perché lei non era e non doveva mai essere in competizione con nessun’altra. La ragazzina aveva una totale assenza di autostima. E queste dinamiche per insegnare con competenza, vanno comprese.
Ma torniamo al mondo adulto e facciamo altri esempi, pienamente convinta che quello che andrò a dire lo avranno sperimentato sulla propria pelle moltissime lavoratrici. Parlo al femminile perché generalmente nel lavoro vengono invidiate prevalentemente, se non a volte esclusivamente, le donne. Questo a causa di una crescita culturale e di indipendenza esponenziale di noi donne e di una permanenza esponenziale di un maschilismo sociale (ovvero di uomini e donne insieme), cresciuti in una cultura maschilista appunto, di cui si fa fatica a farne a meno.
La mia capacità nella didattica e nella relazione umana è sempre stata un problema per gli altri (gli invidiosi), quando sei troppo brava in un contesto di altra gente della tua stessa mansione diventi un problema. Mi ricordo che alle scuole elementari di 18 anni fa c'era un’insegnante che era bravissima a fare disegni e organizzava tutti i saperi dei bambini con dei disegni meravigliosi. Bene, la direttrice le intimò di evitare quei disegni perché infastidivano le altre tre colleghe (certo non parlava per me, ma tant'è). Nella stessa scuola c’era un bambino di quarta che aveva la diagnosi per diverse difficoltà scolastiche: dislessia, discalculia, disgrafia (poverino ce le aveva tutte! Sigh!). La sorellina che aveva frequentato la classe prima era stata etichettata con le stesse probabili difficoltà solo per pregiudizio, ma nella classe seconda l’ho avuta come alunna e ha fatto un anno fantastico, diventando meravigliosa in tutte le materie. La bimba era assolutamente innamorata di me, era quasi imbarazzante, la mamma mi raccontava che voleva stare solo con me, e si stupiva enormemente di quello che la piccola era diventata proprio perché l'anno precedente le avevano detto che la bambina aveva un sacco di problemi. La maestra di quinta (che l’anno prima per questioni organizzative aveva avuto proprio la classe della bambina), cominciò a odiarmi ferocemente. Non perdeva occasione per trovare difetti inesistenti alla mia didattica o al mio modo di fare. In tutti i modi cercava di screditarmi pubblicamente: era l'invidia, quel pensiero malato che ti impedisce di accettare l’idea di avere ancora qualcosa da imparare, o ti impedisce di comprendere che si può essere più belli dentro e più capaci.
Negli anni ho fatto molta formazione alle docenti, e purtroppo devo constatare che ogni docente, soprattutto quella appena uscita dall'università, pensa di sapere tutto. Ma un conto è la teoria studiata, un conto è mettere in pratica tutto ciò che hai imparato e anche tutto quello che l'università non dà e che quindi devi ancora imparare. Ai docenti manca moltissimo l’umiltà; ma per dovere di cronaca devo dire che ho incontrato anche docenti meravigliose (certo, una netta minoranza).
E poi ovviamente c'è anche l'invidia feroce della dirigenza. Questa è la peggiore perché scaricano su di te ogni singola questione pur di evidenziare il fatto che tu in qualche modo non sei idonea. Ti sembra un paradosso? Credimi, non lo è. Le motivazioni sono sostanzialmente due: uno è che si è diffusa l'idea neoliberista che le persone troppo capaci poi chiedono di più all'azienda e pertanto l’azienda, siccome non vuole dare questo di più (mi verrebbe da dire, stupidamente! e consiglierei a tutti i dirigenti di leggere il libro di Michele Ferrero, quello della Nutella per capirci), allora preferiscono dirti sempre che c'è qualcosa che non va bene anche quando il tuo lavoro è eccellente. L'altra motivazione è appunto l'invidia: la dirigente che comprende che tu sei migliore di lei non solo come insegnante, ma che lo potresti essere addirittura come dirigente stessa, che sei capace a relazionarti agli altri meglio di lei e di gestire le questioni scolastiche meglio di lei, allora lì sei finita, lavorare in una scuola dove la dirigente ti invidia, significa non riuscire più a essere sereni sul posto di lavoro, perché è proprio sulla serenità che esprimi dove lei andrà a battere pur di provare a farti diventare un pochino brutta come lei.
Ora è chiaro che io racconto della mia esperienza come docente e pedagogista nei vari ambiti scolastici e istituzionali che ho frequentato, ma l'invidia sta dappertutto, tra colleghi di ogni tipo di lavoro e dirigenti di ogni tipo di società.
Il problema è che se abbiamo detto che l'invidia è una malattia del pensiero, poco ci si può fare. Si dovrebbero curare! Se fosse come tanti dicono una questione caratteriale forse quella persona, parlandoci, aprendo un confronto, potrebbe comprendere ciò che sta facendo. Ma la malattia mentale purtroppo non è così, quando si è dentro alla malattia mentale solo una psicoterapia ti può portare fuori da questo pensiero distorto. Massimo Fagioli ha spiegato benissimo tutte le dinamiche per cui la psiche si ammala fino a diventare invidiosa e di come se ne esce con una psicoterapia adeguata. Spesso l'unica soluzione quando si incontrano persone così è solo quella di cambiare strada. Io l'ho fatto diverse volte, inizialmente con profondo dispiacere, con una delusione a volte direi quasi inaccettabile, ma cambiare strada spesso è l'unico modo per mantenere la propria salute mentale, perché queste persone invidiano proprio quella, e puntano a distruggerla.
Questo articolo è dedicato a tutti coloro che danno valore e competenza al proprio lavoro attirando su di sé invidia e cattiveria. È dedicato a tutte quelle persone che amano profondamente ciò che fanno e che nell’amarlo dimostrano di essere più competenti di altri, attirando su di sé invidia e odio. Questo articolo è dedicato a tutte le persone sane di mente che devono giornalmente confrontarsi con la malattia mentale degli altri, che il più delle volte non viene vista dalla società e scambiata per fraintendimento. Questo articolo è dedicato a tutte quelle persone che non avranno mai soddisfazione della propria competenza perché sane di mente verranno continuamente invidiate e costrette a guardare altrove.
Questo articolo è per tante lavoratrici che conosco, affinché possano comprendere che essere belle dentro, capaci e competenti, non è una colpa, ma un privilegio.
L'articolo è per tutte quelle donne con un'identità professionale valida e una libertà mentale da fare invidia, che esercitano la loro professione in una società misogina e meschina che, marcatamente maschilista, ancora non vuole accettarci.
Dr.ssa Tiziana Cristofari
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