martedì 13 giugno 2023

No all’insegnante di sostegno in classe per bambini con DSA

 

No all’insegnante di sostegno in classe per bambini con DSA e no al bambino stabilmente l’unico vicino alla cattedra: l’ineguaglianza senza equità si paga con una carenza cognitiva.

È finito un altro anno scolastico. Un altro anno a riprova e riconferma di quanto da anni vado dicendo. Ovvero che lasciando liberi i bambini e dandogli fiducia, apprezzandoli e stimandoli per ciò che riescono a fare, proponendo equità, anziché uguaglianza e sostegno individuale, ci sono buoni risultati anche per chi dimostra avere più difficoltà degli altri.

Nonostante questo, nonostante l'evidenza di una capacità di riuscita di questi bambini, se hai la formazione mentale di chi pensa che gli studenti vadano plasmati, indottrinati, curati perché malati, si riscontra una totale incapacità dell’adulto di ammettere il progresso e lo sviluppo cognitivo di questi alunni. 

Allora succede anche, che se voglio mettere un voto realistico a un mio bambino diagnosticato, ma che ha raggiunto risultati non sperati e pensati impossibili, mi si rimproveri che con un PDP avrei potuto alzargli il voto in pagella. Mi domando: ma non è forse meglio un voto più basso ma meritato, che uno più alto ma dato solo per un pezzo di carta?

Purtroppo gli insegnanti formati a pensare che il problema è insito nel bambino, non solo non potranno mai essere all'altezza di aiutare questi alunni, ma neanche realmente ci proveranno.


Studi scientifici che oramai risalgono a una quarantina di anni, quindi non propriamente degli ultimi tempi, hanno dimostrato non solo che le problematiche cognitive non appartengono alla sfera genetica, né neurobiologica, ma attraverso attività clinica hanno confermato che un blocco, una impasse, una difficoltà scolastica è strettamente legata a un disagio relazionale prevalentemente familiare, ma anche dovuta all’insegnante incapace di creare una relazione valida con quel bambino. 

Gli studi e la clinica della psicologia hanno dimostrato che, risolta la difficoltà relazionale degli adulti nei confronti dei figli o degli studenti, la problematica del bambino si risolve anche in tempi brevi, e per problematica intendo quella che comunemente viene definita come Disturbo Specifico dell’Apprendimento (dislessia, discalculia, disgrafia, disortografia, ADHD ecc.).


Come pedagogista, quindi come esperta in una disciplina poco compresa, poco conosciuta e forse anche poco apprezzata, perché va a scontrarsi con un sistema che preferisce tenere sotto controllo ogni singolo individuo (anche dicendo che è malato), anziché renderlo libero nella propria modalità di essere; come studiosa dei processi formativi, psicologici, relazionali, antropologici, sono arrivata a conclusioni e a una prassi didattica-relazionale che negli ultimi tempi hanno trovato riscontro anche nella pubblicazione del libro della psicologa clinica dottoressa Adriana Bembina, la quale ha dimostrato scientificamente, con l'esperienza clinica da lei vissuta nei suoi quarant'anni di lavoro, quello che negli ultimi 15 anni vado dicendo. Ovvero che il problema non è il bambino (anche se è lui a mostrare una difficoltà). Pertanto, se siamo incapaci noi adulti di credere in lui o in lei, di stimarli, di dargli fiducia per le loro potenzialità, i bambini non progrediscono negli studi, ma soprattutto potrebbero riscontrare blocchi cognitivi dati proprio dalla nostra incapacità di credere nella loro crescita e nel loro potenziale sviluppo psicofisico.

La mia prassi e il mio pensiero da venticinque anni è nato dagli studi delle scoperte scientifiche dello psichiatra Massimo Fagioli; oggi la mia prassi pedagogica (e non medica) ha trovato riscontro come già accennato, anche con la psicologia clinica, nella narrazione che ne ha fatto Bembina nel libro La parola ai bambini.


Vivo giornalmente attacchi e negazioni alla mia realtà professionale. Il mondo della scuola o dell'associazionismo interessato alla cura, con un pensiero intriso purtroppo di quell’idea che il problema è insito nel bambino e che da un certo punto di vista deresponsabilizza completamente gli adulti, è allarmante. Nel momento in cui il bambino non recupera perché gli si propone una realtà relazionale non valida, il problema si fa ricadere immancabilmente nella presunta malattia del bambino e quindi nell'impossibilità di chi pensa di curarlo; e non c’è cura perché non c’è malattia organica, ovvero perché si cerca in una eziopatogenesi sbagliata. 


Ma se il pensiero dell'adulto è diverso, ovvero con una realtà affettiva valida e un interesse reale per il bambino, che riconosce che quella difficoltà nasce nella relazione con il mondo adulto, e quindi non è insita nel bambino, allora la riuscita è evidente. Per ottenere questi risultati bisogna dare al bambino una fiducia incondizionata nelle sue potenzialità cognitive, avere una realtà valida di rapporto con lui o lei, un pensiero di riuscita per le loro possibilità. 


Vi garantisco che sentirsi impotenti nella propria professione, nel mio caso di insegnante, è un’esperienza terribile perché porta inevitabilmente al fallimento. Posso immaginare che cosa può provare un genitore che si sente impotente davanti a una realtà che gli hanno prospettato senza possibilità di riuscita e che è basata sul nulla! Quanto invece possa sentirsi incoraggiato nell'idea concreta di una possibilità se qualcuno gliela mostra? Un rimedio che dipende principalmente da se stessi, pertanto un’opportunità che il mondo adulto ha, affinché anche il proprio figlio sia esattamente come gli altri, o perché no, anche migliore degli altri.


Pertanto insisto: non serve far stare il bambino attaccato alla cattedra da solo per tutto l’anno, come fosse un appestato, o dargli assistenza, sostegno o sostituirsi al bambino affiancandolo in classe con una maestra di sostegno, davanti a tutti, per farlo sentire un diverso, un impossibilitato a fare, un emarginato, per umiliarlo continuamente. (Piuttosto potrebbero servire classi numericamente più piccole, per avere una didattica ottimale con tutti i bambini). Questa assistenza richiesta molto spesso dai docenti e dai medici, non motiva, non permette al bambino di sentirsi capace, di sentirsi con una possibilità di crescita come tutti i bambini vogliono; perché i piccoli vogliono essere grandi come mamma e papà e se noi non permettiamo loro di avere questa sensazione, questa speranza, questa possibilità di sentirsi capaci di crescere, noi li stiamo distruggendo prima ancora di vederli fiorire.


Non accetto, e questa volta lo dico con sofferenza e amarezza, tutta questa invadenza in ambito scolastico della pseudo medicina cognitiva neurobiologica e genetica, come se la didattica e la pedagogia, ovvero l’educazione, quindi il mondo della scuola, non avessero più identità. Come se i docenti non potessero essere formati a un pensiero diverso di fare scuola.


E allora punto a quei genitori intelligenti, che vogliono andare oltre una diagnosi mai provata, mai dimostrata con una lastra, un esame del sangue, o un esame genetico su cui i medici di ogni specializzazione fanno ricorso, ma senza l'utilizzo degli strumenti che la scienza gli ha preposto per fare quelle diagnosi —e molto spesso anche quando vengono fatti questi accertamenti, ci sono riprove che le evidenze non sono attendibili*—. Allora si concede a questi medici (psicologi, neuropsichiatri, ma spesso anche logopedisti) ampi spazi a tutte quelle valutazioni standard sul livello di apprendimento che vanno scontatamente a confermare ciò che già l'insegnante sapeva del rendimento scolastico di quel bambino: non dicono certo come superare il problema se non dispensando e compensando: ovvero facendo rimanere il bambino a un livello cognitivo inferiore.


Continuo a rifarmi da tempo la stessa domanda e penso. Il medico fa diagnosi senza l'utilizzo degli strumenti tipici della clinica, però sostiene che la difficoltà del bambino o della bambina è insito in una questione neurobiologica o se preferite genetica; ma badate bene, non prende mai in esame la realtà familiare e scolastica in cui il bambino ha il suo sviluppo psichico. Ovvero non prende mai in esame la possibilità di una vera diagnosi psicologica che, in quanto tale, è ampiamente superabile. Eppure, ci sono testi, tantissimi testi che dimostrano come, bambini cresciuti in orfanotrofi, in case famiglia e in altre situazioni di svantaggio familiare conclamato, abbiano tantissime difficoltà a livello cognitivo; questi bambini sono tutti neuro-geneticamente diversi dagli altri e per questo sono finiti in ambienti lontani dalla famiglia? Certo la mia domanda è ironica, spero però che possa essere di stimolo a comprendere che realtà difficili familiari possono portare a un blocco cognitivo. E per realtà difficile non intendo soltanto l'abbandono del proprio figlio, ma ci sono anche le discussioni familiari, problemi di carattere economico o di abitazione che influiscono sul benessere cognitivo dei bambini; problemi importanti di relazione che i genitori si portano dietro dalla loro infanzia e che per questo, influenzando la relazione con i propri figli, ostacolando la loro crescita. Ci sono tantissime realtà familiari in famiglie considerate assolutamente normali, che possono creare difficoltà a livello di sviluppo cognitivo nel proprio bambino, e che semplicemente andrebbero indagate per essere superate con una psicoterapia per il mondo adulto, e che una volta superate, a cascata, ricadrebbero sulla crescita sana del mondo infantile.


Dott.ssa Tiziana Cristofari

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*Primo, non curare chi è normale. Contro le invenzioni delle malattie. Allen Frances, Bollati Boringhieri

La perdita della tristezza. Come la psichiatria ha trasformato la tristezza in depressione, Allan V. Horwitz, Jerome C. Wakefield, L’asino d’oro




Il libro è reperibile 
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Un titolo e un contenuto sicuramente contro tendenza, dato che libri e manuali sull’argomento parlano solo di come riconoscere i disturbi dell'apprendimento e quali sono gli strumenti dispensativi e/o compensativi per sostenere una realtà che, secondo la maggioranza della comunità scientifica, non ha soluzione in quanto i disturbi sarebbero causati da fattori genetici o neurobiologici.
Nel mio libro affronto scientificamente tutti questi argomenti e li smonto uno per uno dimostrando come sia improbabile quanto viene affermato. Ma soprattutto spiegando perché la comunità scientifica non ha ancora compreso o voluto comprendere, che questi “disturbi” mettono radici lì dove la scuola e la famiglia crescono figli e studenti senza una pedagogia adeguata.

Descrizione del libro. È intelligentissimo, ma il maestro mi dice che non ascolta. Legge stentatamente e la maestra mi ha detto che potrebbe essere dislessica. Non ricorda le tabelline e mi hanno detto che potrebbe essere discalculico. Mi hanno consigliato il logopedista. Mi hanno detto che dovrei portare mia figlia a fare una visita dalla neuropsichiatra infantile. Poi ho letto un suo articolo... Poi cercando su internet il significato di queste parole mi sono imbattuta nel suo sito... È con le stesse parole che un papà arriva da una pedagogista che ha trovato la soluzione ai disturbi specifici dell’apprendimento. Inizialmente scettico, ma speranzoso - perché sua figlia, presunta dislessica, ha difficoltà relazionali con lui e un calo del rendimento scolastico -, s’imbatte in un’avventura scientifica, realistica e umana senza precedenti. Andrà alla scoperta del pensiero di medici e pedagogisti di fama mondiale che gli spiegheranno perché quello che comunemente si racconta sui disturbi dell’apprendimento non è realistico, trovandosi così involontariamente alla ricerca di una conoscenza genetica, neurobiologica, psicologica e soprattutto pedagogica di cui era profondamente allo scuro come del resto buona parte della comunità scientifica ed educativa. Riuscirà in questo modo a capire come nascono, come si prevengono e come si superano i disturbi dell’apprendimento. Ma soprattutto imparerà come è possibile evitarli con l’applicazione di una scienza che nel tempo è stata annullata dalla politica e negata nella formazione dei nuovi docenti: la scienza pedagogica.
Oggi il 25% dei bambini di una classe viene diagnosticato con un disturbo dell’apprendimento. Dicono che il problema è genetico o neurobiologico e per questo non si può far nulla se non dispensare e/o compensare. E se così non fosse?

La dottoressa Tiziana Cristofari pedagogista e docente, con l’aiuto tratto da teorie e prassi di eminenti e riconosciuti studiosi in pedagogia, psicologia e psichiatria - tra i quali Giovanni Genovesi, Shinichi Suzuki, Howard Gardner, Lev Semënovič Vygotskij, Massimo Fagioli -, ha dimostrato come sia ampiamente improbabile che i disturbi specifici dell’apprendimento abbiano origine genetica o neurobiologica e come invece siano il frutto dell’assenza totale di pedagogia scolastica e familiare.