venerdì 16 giugno 2023

Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA): cosa si può fare per non soccombere

 


Come insegnante e pedagogista, tutte le volte che mi trovo davanti un bambino o una bambina con una difficoltà scolastica, oggi più propriamente definita come Disturbo Specifico dell'Apprendimento, ovvero dislessia, discalculia, disortografia ecc., mi chiedo sempre come posso aiutarla. E non è una domanda retorica, perché per questi bambini si può fare moltissimo.

Il medico, dopo la diagnosi, la prima cosa che chiede alle insegnanti è di dispensare e compensare dalle attività scolastiche; eppure è un errore, un grossissimo errore: la psicologa clinica Adriana Bembina afferma: […] abbiamo espresso la nostra ferma opposizione all'applicazione della legge 170. Riteniamo infatti che le misure dispensative e compensative di fatto impediscano l’apprendimento […] per tutto il suo percorso di studi*.

Partiamo dall’inizio: il medico diagnostica questi disturbi con delle verifiche standard basate sulla comprensione del testo, sulla lettura, sul calcolo, sulla socialità ecc. e poi emette il verdetto. Ma la realtà è che quel verdetto era già stato fatto dall'insegnante che ha segnalato lo studente. È vero, questa è la prassi, la legge, l'iter per diagnosticare il bambino con DSA, ovvero per certificare una difficoltà scolastica già evidente all’insegnante. (Mi spiace moltissimo che la formazione prevista per il docente sulle difficoltà scolastiche dei bambini, è solo quella di indirizzare la famiglia verso lo specialista della medicina, anziché formare il docente verso la consapevolezza e comprensione di cosa è possibile fare quando si è di fronte a una difficoltà di carattere prettamente pedagogico e didattico; ovvero di fronte a una difficoltà che può, con la giusta formazione, affrontare l'insegnante che risiede in cattedra). 


Quello che il medico certificatore non sa o non dice, è come possa essere possibile (perché lo è), superare quella difficoltà scolastica e continuare il proprio percorso di crescita senza doversi portare dietro anno per anno certificazioni inutili e umilianti per il bambino ogni volta che cambia insegnanti e/o compagni di classe. Il piccolo con problematiche di apprendimento, non deve andare dal logopedista, che si occupa di linguaggio e con la didattica non c’entra nulla. Ma il medico in medicina, non lo sa, non conosce la didattica, non conosce l’insegnamento, non conosce la relazione pedagogica, perché è di questo che stiamo parlando. E allora sbagliando, indirizza la famiglia dal logopedista!


Ma torniamo al cosa si può fare. 

Dispensare e compensare sono la soluzione meno indicata in quanto il bambino o la bambina con quella specifica difficoltà si sentono autorizzati a non fare più niente. E quella possibilità di migliorare che sarebbe data dall'esercizio anche faticoso, diventa per il bambino inaccettabile, spingendolo al rifiuto per qualunque attività a lui sgradita. Così facendo, un problema superabile si cronicizza in un'idea del bambino di totale incapacità di potere o saper fare come tutti gli altri. La svalutazione di sé si impossessa di lui fino a non uscirne più.

Se il bambino aveva un pizzico di autostima, scompare definitivamente, lasciando cadere il piccolo in una totale disperazione di impotenza, di assoluta incapacità rispetto agli altri di poter fare. Si costruisce così un’esperienza scolastica piena di continue umiliazioni e frustrazioni. Non ci meravigliamo poi se a 16 anni abbandona la scuola.


Dispensare e compensare inizialmente potrebbe sembrare una valida soluzione perché solleva lo studente e anche la famiglia da quella fatica che evidentemente deve fare per raggiungere il suo obiettivo. Non nego che ci sia una difficoltà e una fatica in più per quel bambino, ma dico semplicemente che quel rallentamento nel suo sviluppo cognitivo si può superare con una relazione valida che vada a scavalcare l'ostacolo didattico, dando una speranza di possibilità di crescita che permette al bambino di arrivare all'età dell'adolescenza pensandosi capace come tutti gli altri compagni di scuola. Obiettivo questo indispensabile per un migliore equilibrio psichico nell'età adolescenziale.


Cos'è e perché si presenta un disturbo dell'apprendimento lo ha definito la scienza psicologica attraverso la clinica, stabilendo che un disturbo dell’apprendimento, ovvero un momentaneo e parziale blocco dell'attività cognitiva, è dovuto a una situazione ambientale e familiare non ottimale. (Non riteniamo quindi accettabile l'ipotesi neurobiologica perché vuole suggerire un deficit organico che nessuna ricerca strumentale di laboratorio ha mai confermato**).


La soluzione è affrontare l’attività scolastica proponendo al bambino una relazione valida dal punto di vista pedagogico e didattico, restituendo o incrementando l’autostima che consente al bambino svalutatosi di muoversi più sicuro sulle attività di nuovo apprendimento. Quando il bambino si accorge di essere capace di fare cose prima sconosciute, reagisce trovando le energie e la capacità cognitiva necessaria per i nuovi saperi.


L'attività di insegnamento non è solo un trasferimento di conoscenze dall’adulto al bambino ma è principalmente una competenza pedagogica dell'adulto di trovare il giusto equilibrio tra la relazione che deve instaurare con lo studente e la capacità di dargli la motivazione che gli permetta l’apprendimento.

L'insegnante deve sapere interessare, l'insegnante deve sapere obbligatoriamente credere senza se e senza ma, nelle capacità e nelle potenzialità di ogni studente, l’insegnante deve essere interessata alla crescita cognitiva del bambino. Solo con l’interesse verso il bambino e dandogli fiducia si possono ottenere risultati. Con maggior ragione questo deve avvenire quando quello studente ha già vissuto un percorso di diagnosi che lo ha portato a una svalutazione di sé. 


Nel momento in cui ai bambini passiamo il messaggio che sono diversi, perché certificati, confermato poi dal fatto che in classe fanno cose diverse dagli altri, il bambino pensa che non è come gli altri. Pertanto non essendo più come gli altri ed essendo giustificato per questa differenza, si può permettere di non faticare, di lasciare che sia l'adulto a fare per lui, anzi glielo chiede espressamente dicendo che è stanco. Una stanchezza che non è mai stata certificata da nessuna analisi clinica o diagnostica se non quella della parola del bambino. Nel momento in cui però al bambino che dice di essere stanco, gli si propone un'attività che gli piace, la stanchezza scompare del tutto. Questo è indicativo del fatto che non è una stanchezza veritiera, ma fortemente legata a una attività che non piace, che costa fatica, per la quale non è motivato e che sa di poter essere esentato. 

Questo causerà inevitabilmente una perdita enorme di competenze cognitive che si possono e si devono sviluppare se il bambino facesse quello che fanno gli altri, ma con un’attenzione dell’adulto verso il bambino diversa da quella degli altri. Ognuno con le proprie potenzialità, ma tutti seguiti con un’equità che permette loro di imparare a leggere, scrivere e far di conto. 


C'è sempre solo una domanda che il genitore si deve porre quando comincia questo iter micidiale di soppressione dell'autostima del bambino, che è questa: “Cosa ne sarà di mio figlio quando diventerà più grande, quando mi chiederà di avere una vita propria, lontana dal mio controllo e dalla mia protezione?”. Quel giorno i genitori si accorgeranno che non potranno più fare quello che hanno fatto quando il proprio bambino era piccolo e dovranno accettare inevitabilmente che è cresciuto, stare a guardare impotenti ciò che ha perso e rendersi conto oramai tardivamente che hanno tolto al proprio figlio delle opportunità per vivere una vita adulta più degna di essere vissuta.


Dr.ssa Tiziana Cristofari

© Tutti i diritti riservati


* **Cit. La parola ai bambini. Prevenzione, cura e ricerca nella relazione adulto-bambino, A. Bembina, 2022




Il libro è reperibile 
sul nostro sito oppure su AMAZON 

Un titolo e un contenuto sicuramente contro tendenza, dato che libri e manuali sull’argomento parlano solo di come riconoscere i disturbi dell'apprendimento e quali sono gli strumenti dispensativi e/o compensativi per sostenere una realtà che, secondo la maggioranza della comunità scientifica, non ha soluzione in quanto i disturbi sarebbero causati da fattori genetici o neurobiologici.
Nel mio libro affronto scientificamente tutti questi argomenti e li smonto uno per uno dimostrando come sia improbabile quanto viene affermato. Ma soprattutto spiegando perché la comunità scientifica non ha ancora compreso o voluto comprendere, che questi “disturbi” mettono radici lì dove la scuola e la famiglia crescono figli e studenti senza una pedagogia adeguata.

Descrizione del libro. È intelligentissimo, ma il maestro mi dice che non ascolta. Legge stentatamente e la maestra mi ha detto che potrebbe essere dislessica. Non ricorda le tabelline e mi hanno detto che potrebbe essere discalculico. Mi hanno consigliato il logopedista. Mi hanno detto che dovrei portare mia figlia a fare una visita dalla neuropsichiatra infantile. Poi ho letto un suo articolo... Poi cercando su internet il significato di queste parole mi sono imbattuta nel suo sito... È con le stesse parole che un papà arriva da una pedagogista che ha trovato la soluzione ai disturbi specifici dell’apprendimento. Inizialmente scettico, ma speranzoso - perché sua figlia, presunta dislessica, ha difficoltà relazionali con lui e un calo del rendimento scolastico -, s’imbatte in un’avventura scientifica, realistica e umana senza precedenti. Andrà alla scoperta del pensiero di medici e pedagogisti di fama mondiale che gli spiegheranno perché quello che comunemente si racconta sui disturbi dell’apprendimento non è realistico, trovandosi così involontariamente alla ricerca di una conoscenza genetica, neurobiologica, psicologica e soprattutto pedagogica di cui era profondamente allo scuro come del resto buona parte della comunità scientifica ed educativa. Riuscirà in questo modo a capire come nascono, come si prevengono e come si superano i disturbi dell’apprendimento. Ma soprattutto imparerà come è possibile evitarli con l’applicazione di una scienza che nel tempo è stata annullata dalla politica e negata nella formazione dei nuovi docenti: la scienza pedagogica.
Oggi il 25% dei bambini di una classe viene diagnosticato con un disturbo dell’apprendimento. Dicono che il problema è genetico o neurobiologico e per questo non si può far nulla se non dispensare e/o compensare. E se così non fosse?

La dottoressa Tiziana Cristofari pedagogista e docente, con l’aiuto tratto da teorie e prassi di eminenti e riconosciuti studiosi in pedagogia, psicologia e psichiatria - tra i quali Giovanni Genovesi, Shinichi Suzuki, Howard Gardner, Lev Semënovič Vygotskij, Massimo Fagioli -, ha dimostrato come sia ampiamente improbabile che i disturbi specifici dell’apprendimento abbiano origine genetica o neurobiologica e come invece siano il frutto dell’assenza totale di pedagogia scolastica e familiare.