domenica 23 febbraio 2020

Competenze scolastiche? Anche no, grazie!


L’acquisizione delle competenze scolastiche sono per tutti?
Partiamo dal termine “competenza”. Lo dico subito: non mi piace affatto. Ricorda e rimanda alla competenza che bisogna avere in abito lavorativo. E non è un caso che sia stato scelto e diffuso anche per la scuola, visto che è resa sempre più uno strumento finalizzato solo al lavoro e pertanto per le acquisizioni delle “competenze”, anziché per la crescita umana e la cultura, come dovrebbe essere. 

Detto questo, dato che in qualche modo dobbiamo adeguarci senza però mortificare i nostri figli e studenti, cerchiamo di adattare un certo tipo di linguaggio e di approccio alla scuola senza creare problemi alla crescita e alla futura cultura dei nostri bambini.

Per competenza dobbiamo considerare ogni attività didattica proposta in classe. Pertanto è una competenza la matematica, piuttosto che imparare a leggere e scrivere. Ma com'è possibile acquisire queste competenze senza creare difficoltà nel bambino, per cui si ricorre poi alla certificazione pensando che quel bambino non è in grado di raggiungerle?
Ci sono delle conoscenze che ogni insegnante non può assolutamente sottovalutare, ma che anzi dovrebbero essere cultura e patrimonio pedagogico del docente stesso. Vediamo quali sono.

È di fondamentale importanza considerare che ogni bambino preso nel suo ambito antropologico (ovvero, sociale, familiare, economico e culturale) ha un approccio e una capacità cognitiva assolutamente personale e pertanto non paragonabile a quella degli altri bambini della classe. Detto questo va da sé che ogni bambino ha i suoi tempi di apprendimento, soprattutto nelle classi prima, seconda e terza primaria, in cui il docente dovrebbe concedere a se stesso e al bambino dei tempi anche diversi rispetto alla media della classe. Tempi che, per chi è più lento, andranno sempre più accorciandosi nel divario con gli altri studenti proseguendo nelle classi superiori, sempre che non venga instillato nella testa del bambino il pensiero che “non è in grado di raggiungere determinate competenze”.
Per fare un esempio, se un bambino di seconda elementare ha una capacità cognitiva più lenta per l'acquisizione della matematica e pertanto non ha ancora ben capito le sottrazioni con il riporto, è assurdo e impensabile passare alle moltiplicazioni e divisioni, in quanto per lui diventerebbero una competenza difficilmente raggiungibile in tempi brevi, proprio a causa della non acquisizione delle nozioni fondamentali per capirle. Se addizioni e sottrazioni (ovvero addizionare e sottrarre) non sono diventati automatismi ampiamente assimilati è impensabile aspettarci una capacità logica del bambino che gli possa consentire di comprendere cosa significa moltiplicare o cosa significa dividere.

Se noi al bambino chiediamo prestazioni superiori alle sue capacità (competenze) acquisite, ovvero non consone alla sua capacità cognitiva del momento, otteniamo una frustrazione difficile da superare per il bambino che gli creerà inoltre imbarazzo, vergogna e spesso paura perché l’adulto, quando il bambino ha difficoltà, comincia a urlare pensando che non è possibile che non capisca, pensando che non si applica abbastanza e confrontando il suo rendimento con quello dei pari, ampliando così anche la frustrazione dell'adulto che, per eliminarla, la continuerà a scaricare sul bambino con atteggiamenti aggressivi. Tutto questo in una reiterazione continua che non potrà far altro che interrompere il processo di apprendimento del bambino.
Il sentire emotivo negativo dello scolaro, farà sì che ogni volta che tenterà di utilizzare le sue conoscenze per affrontare una nuova sfida, oltre alla competenza appresa, porterà con sé anche la paura, la vergogna e la frustrazione, che andranno a interrompere il processo cognitivo dell'apprendimento a scapito delle nuove conoscenze (D. Lucangeli, 2018).

Pertanto l'apprendimento delle nuove competenze, che oggi sembrerebbero alla base della scolarizzazione dei nostri bambini, risultano essere anche alla base delle loro problematiche; questo perché l’insegnante insegue il programma a tutti i costi quale fosse l'unica realtà esistente a scuola, a scapito dell'evoluzione della crescita di ogni singolo bambino. È inaccettabile quando sento dire che non si possono seguire ritmi di studi diversi per i bambini; è inaccettabile quando sento dire che tutti devono seguire lo stesso programma (addirittura facendolo passare per uguaglianza, ma tradendo ampiamente il concetto di equità); è inaccettabile pensare che per il concetto di uguaglianza i bambini si debbano livellare tutti al rialzo, e perché non farlo al ribasso? Perché non rallentare il percorso a chi va meglio? Ovviamente perché non sarebbe giusto o etico; però stranamente si reputa giusto ed etico fare il contrario, togliere a chi ha meno. Quando sarebbe assolutamente possibile dare a entrambi. Conosco tante insegnanti capaci di farlo. Certo sono sempre molto poche rispetto alla maggioranza.

È chiaro che se il mercato chiede competenze e se a dirigere il Ministero dell'Istruzione c'è chi pensa che sia giusto elevare solo le competenze, o se gli insegnanti che stanno a scuola pensano che l'unica realtà siano le competenze perché tutto è più semplice, perché passare nozioni non richiede un rapporto, una relazione, un coinvolgimento emotivo con i bambini, allora sì, dobbiamo dar retta a un curriculum scolastico che richiede solamente competenze. Dobbiamo dar retta ad un profilo razionale che esclude la specificità del bambino, della sua situazione antropologica, del suo benessere psichico e cognitivo, a favore di conoscenze razionali e nozionistiche, per diventare il “competente” lavoratore di domani. Per diventare la macchinetta razionale, veloce ed efficiente, che il mercato chiede. Tutti gli altri possono restare fuori: d’altronde è noto, il lavoro per tutti non c’è.

Se invece l’insegnante ha un approccio pedagogico e pertanto umano, ovvero la capacità di guardare alla persona prima ancora che al futuro lavoratore, allora è bene ricordare che ciò che ci interessano non sono le competenze da acquisire il prima possibile, ma ci interessa far crescere esseri umani sani cognitivamente, creativi, consapevoli e soprattutto capaci di affrontare le sfide che la vita gli propone a partire fin dalle prime realtà scolastiche per imparare a leggere scrivere e far di conto.

Concludo dicendo che le conoscenze sono un traguardo che vanno di pari passo con la maturità psichica cognitiva di ogni bambino a cui è stato permesso di crescere e svilupparsi senza provare vergogna, frustrazione o paura per tutto ciò che la vita gli chiede di imparare a fare. Se un bambino che sta imparando a camminare ogni volta che cade lo sgridiamo o non lo facciamo più tentare rimettendolo seduto, il bambino non camminerà o tarderà molto il suo traguardo: credo che nessuno si sia mai arrabbiato con un bambino che tenta i primi passi e cade, e tutti i bambini prima o poi imparano a camminare. Leggere e scrivere è esattamente la stessa cosa, si va per tentativi ed errori, finché non ci si riesce.
E non pensiamo che questa sia un’utopia, perché siamo un Paese occidentale in cui la cultura psicologica ha preso ampiamente piede e non è giustificato né giustificabile, che gli insegnanti ancora ignorino questa realtà umana o che la ignorino le Istituzioni. 
Se tutto ciò non si fa, è perché non si vuole fare.

Dott.ssa Tiziana Cristofari
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