Quando i nostri figli hanno delle difficoltà scolastiche e la scuola ci suggerisce di farli valutare per presunta dislessia, discalculia, disgrafia, disortografia, il più delle volte ci si affida al professionista tramite il servizio sanitario pubblico o privato.
Tale diagnosi spesso è limitata alla valutazione dell’apprendimento che il bambino o la bambina hanno sviluppato fino a quel momento. Ovvero vengono sottoposti a test che servono per misurare se, nelle varie attività scolastiche, il piccolo rientra in una media statistica. Questi accertamenti però non hanno un valore medico-scientifico che possa realmente indicare le motivazioni e le cause di tale “ritardo” o difficoltà, né tantomeno possono stabilire come un bambino, se stimolato diversamente e adeguatamente — rispetto a quanto fatto fino a quel momento —, possa migliorare. Ciò accade perché chi effettua queste valutazioni dà per scontato che la difficoltà di apprendimento sia legata a problemi neurologici o genetici.
Però valutazioni fatte su base statistica e non scientifica rendono impossibile definire la causa del problema e costringono l’esaminatore a semplificare la questione dispensando e compensando il bambino dalle difficoltà scolastiche, ma impedendogli così definitivamente di recuperare ciò in cui è carente.
Medici e psicologi limitandosi a una diagnosi non scientifica escludono a priori che la difficoltà possa essere ambientale e relazionale definendo solo come la bambina è, non come potrebbe essere, né tantomeno come sarà.
Raramente, quando la valutazione risulta essere molto sotto la norma si richiedono analisi del sangue, risonanze magnetiche o altro, che però al 99% dei casi, risultano negative. Pertanto la difficoltà non può essere imputata né a problemi neurologici, né tantomeno genetici.
Allora perché alcuni bambini sono carenti rispetto alla maggioranza?
Questo errore di valutazione è imputato al fatto che chi somministra questi test statistici non ha alcuna formazione per quanto riguarda la didattica, il metodo e le infinite possibilità di approccio pedagogico che agevolano o meno l’apprendimento e che sono strumenti tipici dell’insegnante esperto e competente o, meglio ancora, del pedagogista-insegnante. Da quest’anno infatti, il riconoscimento del ruolo del pedagogista (Legge Iori), dovrebbe compensare questo vuoto non solo normativo, ma soprattutto professionale nell’equipe per le valutazioni, sempre se, chi è preposto a formare l’equipe, reputi di fondamentale importanza una riflessione a livello didattico-pedagogico. Io personalmente sono molto scettica sulla possibilità che i medici o gli psicologi prendano in considerazione una competenza fondamentale come quella pedagogica di recentissima valorizzazione. Resta pertanto alla famiglia valutare attentamente quanto viene detto sul proprio figlio.
Pertanto, dal mio punto di vista, ovvero quello di una pedagogista, parlando a chi vuole la verità sapendosi mettere anche in discussione, ma soprattutto parlando a quei genitori che non vogliono che il proprio figlio cresca con atteggiamenti di inferiorità, di tristezza, inadeguatezza e di incompetenza rispetto ai coetanei, penso che una seria valutazione dovrebbe prendere in considerazione:
- le capacità oggettive del bambino: ovvero quanto e cosa ha imparato fino a quel momento;
- quali sono stati gli stimoli che gli hanno permesso di conoscere e sapere: ovvero le caratteristiche del suo ambiente circostante;
- quanto la famiglia parla con la bambina o se si limita solo a frasi di pura utilità: la stimolazione del linguaggio fin dalla nascita è alla base di un buon sviluppo dell’apprendimento;
- quali e come sono le relazioni con insegnanti e coetanei;
- qual è stato il passato fisico e mentale del bambino;
- come ha vissuto la prima infanzia (0-6 anni) sia in ambito familiare che scolastico;
- che tipo di educatori ha avuto nella prima infanzia (disponibili, isterici, affettivi, violenti verbalmente e/o fisicamente ecc.);
- quali metodologie didattiche sono state utilizzate fino all’insorgenza della difficoltà, dato che, per esempio, il metodo globale per la lettura, è stato più volte riconosciuto quale la causa della cosiddetta dislessia (scambio di lettere, lettura lenta, incapacità di pronunciare alcune sillabe ecc.);
- qual è e com’è il contesto familiare (sereno, agitato, contrastato, di povertà economica e/o morale ecc.).
Inoltre, questione importantissima, le potenzialità dell’apprendimento di un bambino possono essere valutate tenendo presente anche e soprattutto il comportamento dell’esaminatore:
- se sa essere affettivo (ovvero se ha interesse per l’altro);
- se sa mettere a proprio agio la bambina;
- se sa sorridere (caratteristica indispensabile per un esaminatore perché procura tantissime reazioni positive a livello cerebrale ed emozionale, mentre il contrario ne causa tante negative);
- se è capace di non mettere fretta alla bambina;
- se sa comprendere il movimento interno del bambino (paura, ansia, incomprensione);
- se sa proporre stimoli adeguati all’età;
- se sa avere capacità relazionali: ovvero entrare in empatia con lui/lei;
- se sa spiegare con metodo e didattica idonei nuovi argomenti, per valutare la capacità di apprendere e non solo ciò che ha appreso fino a quel momento;
- ma anche che non abbia il camice bianco del medico (che crea ansia);
- e che la valutazione venga svolta in un ambiente ludico-ricreativo-formativo-colorato e non in una sterile stanza bianca da ospedale.
Per fare tutto questo infine, c’è bisogno di tempo, almeno 8 incontri di un’ora l’uno che possano permettere una conoscenza senza stress, cadenzata e costante, capace cioè di costruire quell’ambiente relazionale tale da mettere il bambino a proprio agio. Non è certo possibile fare tutto in un paio d’ore o in mezzo pomeriggio come normalmente accade.
Se il centro di diagnosi o il professionista che sottopone il bambino ad una valutazione non è e non fa tutto quello sopra indicato, sta falsando la valutazione rendendola inattendibile.
Una diagnosi sul rendimento scolastico non può concludersi con test di capacità standard perché le realtà individuali dei bambini sono tantissime e devono essere considerate tutte singolarmente per una valutazione VERAMENTE obiettiva. Cosa che spesso non accade nelle strutture pubbliche per mancanza di fondi di cui necessiterebbe un tale percorso di valutazione.
Dobbiamo tenere anche presente che, se la valutazione non è corretta possiamo incorrere in una concausa del rallentamento della capacità cognitiva del bambino ed essere pertanto noi stessi causa di una ulteriore difficoltà.
Nei primi due anni di scuola non è pensabile immaginare tutti i bambini dentro una norma statistica di valutazione (ne parlava già la Montessori più di 100 anni fa), perché le famiglie e gli stimoli che le stesse forniscono ai bambini fanno sì che le potenzialità di ognuno sviluppino in modo differente; pertanto un bambino che acquisisce determinate capacità in seconda primaria, anziché nella classe prima, non significa che non possa poi proseguire gli studi rientrando nella casistica di una norma e a volte addirittura superandola.
Dal terzo anno in poi anche se alcuni bambini sono leggermente indietro rispetto alla classe, non significa che non possano recuperare e mettersi al pari degli altri. Ciò di cui questi bambini hanno bisogno è un’insegnante capace di stimolarli adeguatamente incoraggiandoli e sostenendoli nel recupero per raggiungere gli obiettivi di tutti, che è possibile e deve essere fatto con la consapevolezza di una cultura pedagogica, didattica e di metodo adeguata, non certo da situazioni che provvedono solo a compensare e a dispensare, quindi più a togliere la capacità cognitiva che a svilupparla.
Ora vediamo quali sono le motivazioni che rallentano l’apprendimento dei bambini:
- l’indifferenza dell’adulto significativo (madre, padre) nella relazione: ovvero pensare solo o prevalentemente a se stessi e al lavoro;
- l’indifferenza dell’adulto significativo per il gioco: ovvero non giocare mai con i propri figli;
- non essere in rapporto costante con i propri figli: ovvero ignorarli quando chiamano, non rispondere alle loro domande, lasciarli soli davanti ad uno schermo (tablet, telefono, televisione, computer) per molte ore, non coinvolgerli mai in attività alternative in vostra compagnia, non parlargli, non sorridergli, ma limitarsi a dialoghi necessari con sguardi duri e severi;
- non avere in casa libri adatti alla loro età e non leggere mai ai vostri figli;
- non permettergli la relazione tra pari anche fuori dalla scuola;
- gridare con i figli o con altri;
- aggredire i figli o altri;
- non permettergli di frequentare mai una biblioteca, un parco giochi, un museo;
- renderlo dipendente dall’adulto su ogni cosa, ovvero impedirgli di sviluppare tutte le competenze cognitive e fisiche: impedendogli di fare da solo tutto quello che è possibile a quella specifica età (vestirsi, apparecchiare la tavola, mettere a posto i giocattoli, lavarsi, portarsi lo zaino, fare i compiti in autonomia ecc.), con la giustificazione della mancanza di tempo, che non è capace, non vi fidate ecc.;
- fare continui paragoni e confronti sul rendimento scolastico, sul carattere, sulle prestazioni con fratelli o sorelle più grandi o più piccoli, cugini, compagni di classe ecc.
Insomma, come pedagogista penso che sia fondamentale guardare l’ambiente e le relazioni in cui i vostri figli sono inseriti prima ancora di cercare diagnosi mediche che possano solo giustificare una difficoltà che hanno genitori e insegnanti. Difficoltà dovute il più delle volte alla non conoscenza della formazione pedagogica più adeguata da parte della famiglia, e a una formazione accademica pedagogica inadeguata per i docenti della scuola primaria.
Dr.ssa Tiziana Cristofari
© Tutti i diritti riservati
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Un titolo e un contenuto sicuramente contro tendenza, dato che libri e manuali sull’argomento parlano solo di come riconoscere i disturbi dell'apprendimento e quali sono gli strumenti dispensativi e/o compensativi per sostenere una realtà che, secondo la maggioranza della comunità scientifica, non ha soluzione in quanto i disturbi sarebbero causati da fattori genetici o neurobiologici.
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