La trasmissione Il Collegio
andata in onda su Rai Due per quattro serate è stata molto utile per lanciare
il messaggio pedagogico per eccellenza, ovvero cosa si celi dietro l’insegnamento,
dove arriva il compito dell’insegnante, quali sono le sue verità poco visibili.
Certo non tutto corrisponde al vero
degli anni Sessanta. Se escludiamo la disciplina intesa come volontà di fare
certe cose in un certo modo tutto il resto era molto utopistico. Facciamo degli
esempi. I controllori e gli insegnanti nella loro fermezza erano estremamente
affettivi; mai un atto di cattiveria volontaria, ma solo un atteggiamento fermo
per far applicare le regole e raggiungere l’obiettivo. Ma quando mai nella
realtà quella rigidità delle regole si è espressa senza cattiveria o sadismo?
La capacità di mantenersi fermi sulla disciplina ma non violenti è una bella
utopia, sia per i giorni nostri ma ancor di più in quelli passati. Certo,
esistono insegnanti con queste capacità, ma sono rarissimi. Se le scuole
fossero tutte con docenti così, l’obiettivo pedagogico sarebbe non solo
capito e applicato, ma addirittura centrato.
I docenti de Il Collegio,
sanno unire la regola (che equivale alla corretta convivenza sociale)
all’affettività umana (nel film espressa dai controllori e insegnanti nel
comprendere le crisi degli studenti, aiutarli a rafforzare l’autostima e a
sostenerli nelle difficoltà, cosa che negli anni Sessanta non sarebbe mai
avvenuta — se non con il maestro Manzi — e molto raramente avviene oggi).
Altra realtà poco veritiera è tutta quella partecipazione degli studenti a lezioni alternative alla classica didattica frontale: ma quando mai in quegli anni — e rarissime volte in questi —, si sono viste lezioni di partecipazione attiva su tutte le materie come nel film? L’esempio più lampante è legato alle lezioni di italiano e latino. Negli anni ’60 gli studenti potevano morire di noia tediati da esercizi ripetitivi sul latino e sull’italiano. Nel film gli studenti hanno partecipato a situazioni che farebbero eccitare e trasformare la nostra scuola attuale in qualcosa di veramente positivo: una didattica partecipata con giochi (vedi la lezione di latino fatta attraverso il gioco della caccia al tesoro) e la possibilità di esprimere la propria emotività (vedi le lezioni di italiano partecipate sui temi). Inoltre quanti professori negli anni ’60 o oggi avrebbero permesso la lettura di un tema in separata sede, rispettando il sentimento della studentessa che si opponeva alla lettura pubblica? Oppure accogliere un pianto, o una grande frustrazione (come la non ammissione agli esami) per poi stimolare lo studente a fare meglio, anziché denigrare e offendere come è oggi spesso di uso comune; ma lo era anche ieri!
Altra realtà poco veritiera è tutta quella partecipazione degli studenti a lezioni alternative alla classica didattica frontale: ma quando mai in quegli anni — e rarissime volte in questi —, si sono viste lezioni di partecipazione attiva su tutte le materie come nel film? L’esempio più lampante è legato alle lezioni di italiano e latino. Negli anni ’60 gli studenti potevano morire di noia tediati da esercizi ripetitivi sul latino e sull’italiano. Nel film gli studenti hanno partecipato a situazioni che farebbero eccitare e trasformare la nostra scuola attuale in qualcosa di veramente positivo: una didattica partecipata con giochi (vedi la lezione di latino fatta attraverso il gioco della caccia al tesoro) e la possibilità di esprimere la propria emotività (vedi le lezioni di italiano partecipate sui temi). Inoltre quanti professori negli anni ’60 o oggi avrebbero permesso la lettura di un tema in separata sede, rispettando il sentimento della studentessa che si opponeva alla lettura pubblica? Oppure accogliere un pianto, o una grande frustrazione (come la non ammissione agli esami) per poi stimolare lo studente a fare meglio, anziché denigrare e offendere come è oggi spesso di uso comune; ma lo era anche ieri!
Quello che ci hanno fatto vedere è la
scuola dell’utopia. Una scuola fattibile, intendiamoci, ma oggi ancora
purtroppo un’utopia! Una scuola che sarebbe stata ampiamente vincente ieri come
oggi se realisticamente esistente. E vincente lo è nel film ovviamente, e negli
ascolti! Certo nella trasmissione televisiva ci sono esigenze di spettacolo. Se
avessero realmente riportato una condizione collegiale degli anni ’60 forse non
ci sarebbe stata la stessa attrattiva, soprattutto da parte degli adolescenti. Quella
scuola degli anni Sessanta del ‘900 raccontata dagli studenti del Duemilasedici
doveva essere diversa: doveva essere come tutti noi un po’ la desideriamo,
forte e accattivante allo stesso momento. Il racconto doveva proporre le regole
di civiltà comuni che oggi mancano alle nostre scuole; doveva proporre
l’affettività umana che oggi tutti richiedono e che è ugualmente assente nelle
nostre scuole. Lo studente (bambino o adolescente che sia) conosce bene — perché
innato nell’umanità che ci accomuna socialmente — quali sono il senso del
dovere, le regole del rispetto e il sentire umano. Ed è questo che cerca e
chiede alla comunità adulta; se non lo trova va verso quelle alternative che
spesso portano alla sconfitta dell’essere umano (abbandoni scolastici, disadattamento,
malattie mentali, doghe, violenza ecc.).
La maestra a casa
Ma entriamo un po’ del dettaglio del
programma televisivo.
Diciotto adolescenti dei nostri
giorni entrano in un collegio degli anni ’60 per prendersi la licenza media.
Provengono da realtà di vita affettiva, familiare e sociale diversa ed entrano
in una realtà che non gli appartiene perché piena di regole e imposizioni che
ai nostri giorni sono abolite da tempo.
Il primo elemento evidente e su cui
si punta l’attenzione è proprio la costrizione di fare ciò che ai ragazzi viene
imposto senza una loro volontà e l’eliminazione di tutti quegli strumenti
tipici del nostro tempo (cellulari, dispositivi per le acconciature, trucchi,
cibo ecc.). Oggi un’imposizione o una minaccia agli studenti in tal senso farebbe
gridare allo scandalo, si arriverebbe alla denuncia. Ma quasi sorprendentemente
gli adolescenti di oggi accettano di guardare i loro coetanei della
trasmissione e ne rimangono entusiasti (nella seconda puntata lo share tra gli
adolescenti arriva al 18,7%). Perché?
C’è di più: gli studenti che si
sottopongono alla rigidità del collegio, tentano continuamente una ribellione,
ma dopo la punizione comprendono l’errore e accettano le conseguenze. Perché?
È interessante anche evidenziare come
nonostante le punizioni e la rigidità delle regole i ragazzi non smettano di
fare scherzi e di ribellarsi. È come se una forza più grande di loro intesa
come vitalità interna, non permettesse alla ragione di essere come gli
altri ci chiedono di essere. Perché?
Forse perché il sentire è più forte
del ragionare? O forse perché quelle punizioni e quelle richieste non sono
violente, non sono aggressive, sono semplici richieste di seguire le regole per
un vivere civile e comune? E gli insegnanti di oggi saprebbero essere così
fermi sulle regole, ma affettivi e partecipativi?
Il fatto è che si sono ingiustamente
“punite” le regole a favore di una retorica sulla “costrizione” che le regole
stesse avrebbero imposto agli studenti a scapito di una libertà che non è mai
stata tale. Che non è tale! In verità ciò che è accaduto nel tempo in ambito
scolastico, è un totale disinteressamento per la realtà educativa degli
studenti da parte dei docenti; e questo disinteressamento è passato sotto la
falsa riga di poter concedere allo scolaro quella libertà che negli anni
Sessanta si pativa. Ma la tolleranza-assenza degli insegnanti di oggi non ha
portato a una reale movimento di libertà sul piano umano, ma solo a un disinteressamento
per il valore pedagogico che le società da sempre tentano di esprimere per
poter effettuare una vita collettiva degna di essere tale.
La riuscita del film ha un’unica
grande e vera realtà: la comunicazione umana, l’interesse espresso dai docenti
e dai controllori nei confronti di quei ragazzi. E il sostengo, l’unione, la
comprensione che gli adolescenti si dimostrano e si scambiano in un unico
grande abbraccio di solidarietà umana, fraterna, di vera amicizia, come più
spesso loro stessi affermano rendendosi vincenti! Sempre, dall’inizio alla
fine.
Ma l’atteggiamento dei docenti è
finzione, palesemente una finzione. Gli insegnanti non sono mai stati nella
storia della scuola così, perché il loro curriculum di studi non ha previsto la
pedagogia. E non è prevista purtroppo neppure oggi, che inevitabilmente ci
costringono ad accontentarci di un film per poter far sognare i nostri
studenti. Quei docenti lì, sono solo l’utopia che permette lo shere. Una
bellissima utopia assolutamente perseguibile in un posto meraviglioso come la
scuola dove attraverso il rapporto umano si ritrova la regola che rende liberi
in una società complessa.
Ma tant’è che ancora non ci siamo. La
possiamo vedere solo attraverso lo schermo, la possiamo sognare, perché è
chiaro che è ciò che tutti gli studenti vorrebbero: ritrovare la vera umanità e
solidarietà nel rapporto con gli altri senza l’interferenza della bugia
tecnologica che ci fa vicini e uniti in una realtà virtuale, fredda e mai
realmente appagante.
Inizialmente vi accennavo al messaggio
pedagogico che il programma trasmette. Le scuole di oggi non hanno più — se
mai l’hanno avuta nel passato — la funzione di far maturare la persona, e per
cui spesso anche il preside del film ribadiva che le regole erano fatte per
rendere quegli studenti uomini e donne, per formarli alla vita futura.
Nulla si può togliere alla scuola
nell’idea di essere uno strumento per la conoscenza, ma se in quella conoscenza
non si permette all’uomo o alla donna di maturare nel rapporto umano, poco gli
servirà. La conoscenza nozionistica non ha età, può avvenire in qualsiasi
momento, ma la maturità psichica ad un certo punto della vita di una persona ci
deve essere, perché è richiesto dalla vita stessa il saper gestire e affrontare
le difficoltà e le situazioni a noi riservate.
In tre decidono di andare via dal
collegio, decidono di essere sconfitti dalla vita, nei rapporti con gli altri
dove non riescono a trovare la linfa vitale per affrontare una situazione sì
sgradevole, ma limitata nel tempo. Una sconfitta che prima ancora dello
studente è della famiglia, una famiglia che non ha saputo far sviluppare nel
proprio ragazzo quella resilienza necessaria per affrontare il mondo. Lo ha
protetto troppo forse; ha concesso troppo facilmente una libertà materiale che
si è trasformata in una prigione e in un fallimento continuo: quello di non
riuscire a vincere le proprie battaglie. Ha fatto figli fragili: fragile è
Davide che nella sua bravura e nel suo estremo rispetto delle regole molla
perché le stesse lo soffocano o perché, a mio avviso, non ha saputo trovare
nell’umanità dell’altro (i compagni di viaggio) il suo punto di forza. Lui
stesso afferma di non essere abbastanza forte e per questo lascia senza sentire
il peso del fallimento dell’esperienza.
Fragile è anche Arianna, che ha
rivelato tra le righe una famiglia assente, che ha preferito farle fare sempre
ciò che voleva (da loro stessi dichiarato), ma che ha causato solo
un’anaffettività di rapporto: nonostante le amiche le fossero vicine lei non ha
saputo — perché non le è stato insegnato —, prendere l’affettività che le veniva
donata dalle amiche, per trovare lì nell’umanità, la forza di superare “la regola”. Perché è di questo che
parliamo, di semplici regole di convivenza. Non a caso, Arianna ha mollato
proprio nel momento in cui avrebbe avuto più libertà: durante i giochi delle Convittiadi
e a una sola settimana dalla fine. È come se andando via dalla scuola
avesse voluto a tutti i costi dimostrare alla famiglia, prima ancora che a se
stessa, che quella battaglia l’avrebbe comunque vinta lei (come è sempre stato)
abbandonando un’imposizione. Aveva superato tre settimane, troppo per lei che
non era mai sottostata alle regole degli altri. Come avrebbe potuto dire a se
stessa e agli altri che era possibile rispettare le regole? Come poteva
guardare in faccia la famiglia e dire loro di essere cambiata? E così è andata
incontro alla sconfitta, si è cercata la motivazione per non dover ammettere a
se stessa di poter essere diversa. Chissà se poi qualcuno le ha fatto notare
che solo lei ha perso. Che le regole della vita sono sempre lì e prima o poi a
qualcuna di quelle dovrà dar conto, pena l’esclusione dalla società civile.
L’espulsione invece, è l’unico
provvedimento che non riesco proprio a condividere come pedagogista soprattutto
se non è legato ad atteggiamenti che potrebbero alterare l’incolumità di
qualcuno, tantomeno atti di vandalismo per i quali il provvedimento a quel
punto potrebbe essere anche giustificato. La conseguenza di un’espulsione non
modifica il ragazzo, ma porta solo a non permettere a quegli studenti di maturare,
e questo è un fallimento dell’istituzione scolastica. L’espulsione è una
lesione psichica permanente, volutamente inflitta, violenta, che non permette
il riscatto dell’errore e pertanto a mio avviso è deprecabile.
Tutte le punizioni utilizzate ne Il
Collegio per il rispetto delle regole (eccetto quella dell’espulsione),
erano indubbiamente formative. Non ci sono state violenze fisiche (come invece
a quei tempi ancora esistevano, ad esempio stare in ginocchio sui ceci,
bacchettate sulle mani ecc.) e non ho trovato nemmeno violenza psicologica
(denigrazioni e insulti come purtroppo accade moltissimo ai nostri giorni). Non
a caso il più delle volte la punizione inflitta ai ragazzi è diventata un gioco
anche molto utile (pelare le patate per la cena, pulire la scuola).
Ancora una volta quindi dobbiamo
riconoscere che quel modo di fare scuola non è reale.
Ma vorrei sottolineare che tutto ciò
che va oltre la didattica puramente nozionistica è pedagogia. Lo studio
della pedagogia, della migliore pedagogia, quella scientifica, valutata, capita
nelle sue implicazioni sulle generazioni passate e poi applicata agli studenti
del presente per formare uomini e donne migliori di quello che siamo oggi noi
adulti, è pedagogia. Ma badate bene che la pedagogia non è una punizione
o un regolamento da far rispettare, ma è un modo di essere e di fare per far
essere gli altri in un certo modo, e che insieme alla didattica (concepita
anch’essa come un modo di essere e fare del docente) permette o permetterebbe
un’umanità, una socialità e infine un’antropologia senza precedenti.
Dr. Tiziana Cristofari
©Tutti i diritti riservati
Descrizione del libro. È intelligentissimo, ma il maestro mi dice che non ascolta. Legge stentatamente e la maestra mi ha detto che potrebbe essere dislessica. Non ricorda le tabelline e mi hanno detto che potrebbe essere discalculico. Mi hanno consigliato il logopedista. Mi hanno detto che dovrei portare mia glia a fare una visita dalla neuropsichiatra infantile. Poi ho letto un suo articolo... Poi cercando su internet il significato di queste parole mi sono imbattuta nel suo sito... È con le stesse parole che un papà arriva da una pedagogista che ha trovato la soluzione ai disturbi specifici dell’apprendimento. Inizialmente scettico, ma speranzoso - perché sua figlia, presunta dislessica, ha difficoltà relazionali con lui e un calo del rendimento scolastico -, s’imbatte in un’avventura scientifica, realistica e umana senza precedenti. Andrà alla scoperta del pensiero di medici e pedagogisti di fama mondiale che gli spiegheranno perché quello che comunemente si racconta sui disturbi dell’apprendimento non è realistico, trovandosi così involontariamente alla ricerca di una conoscenza genetica, neurobiologica, psicologica e soprattutto pedagogica di cui era profondamente allo scuro come del resto buona parte della comunità scientifica ed educativa. Riuscirà in questo modo a capire come nascono, come si prevengono e come si superano i disturbi dell’apprendimento. Ma soprattutto imparerà come è possibile evitarli con l’applicazione di una scienza che nel tempo è stata annullata dalla politica e negata nella formazione dei nuovi docenti: la scienza pedagogica.
Il libro è reperibile
o tramite AMAZON
Un titolo e un contenuto sicuramente contro tendenza, dato che libri e manuali sull’argomento parlano solo di come riconoscere i disturbi dell'apprendimento e quali sono gli strumenti dispensativi e/o compensativi per sostenere una realtà che, secondo la maggioranza della comunità scientifica, non ha soluzione in quanto i disturbi sarebbero causati da fattori genetici o neurobiologici.
Nel mio libro affronto scientificamente tutti questi argomenti e li smonto uno per uno dimostrando come sia improbabile quanto viene affermato. Ma soprattutto spiegando perché la comunità scientifica non ha ancora compreso o voluto comprendere, che questi “disturbi” mettono radici lì dove la scuola e la famiglia crescono figli e studenti senza una pedagogia adeguata.
Descrizione del libro. È intelligentissimo, ma il maestro mi dice che non ascolta. Legge stentatamente e la maestra mi ha detto che potrebbe essere dislessica. Non ricorda le tabelline e mi hanno detto che potrebbe essere discalculico. Mi hanno consigliato il logopedista. Mi hanno detto che dovrei portare mia glia a fare una visita dalla neuropsichiatra infantile. Poi ho letto un suo articolo... Poi cercando su internet il significato di queste parole mi sono imbattuta nel suo sito... È con le stesse parole che un papà arriva da una pedagogista che ha trovato la soluzione ai disturbi specifici dell’apprendimento. Inizialmente scettico, ma speranzoso - perché sua figlia, presunta dislessica, ha difficoltà relazionali con lui e un calo del rendimento scolastico -, s’imbatte in un’avventura scientifica, realistica e umana senza precedenti. Andrà alla scoperta del pensiero di medici e pedagogisti di fama mondiale che gli spiegheranno perché quello che comunemente si racconta sui disturbi dell’apprendimento non è realistico, trovandosi così involontariamente alla ricerca di una conoscenza genetica, neurobiologica, psicologica e soprattutto pedagogica di cui era profondamente allo scuro come del resto buona parte della comunità scientifica ed educativa. Riuscirà in questo modo a capire come nascono, come si prevengono e come si superano i disturbi dell’apprendimento. Ma soprattutto imparerà come è possibile evitarli con l’applicazione di una scienza che nel tempo è stata annullata dalla politica e negata nella formazione dei nuovi docenti: la scienza pedagogica.
Oggi il 25% dei bambini di una classe viene diagnosticato con un disturbo dell’apprendimento. Dicono che il problema è genetico o neurobiologico e per questo non si può far nulla se non dispensare e/o compensare. E se così non fosse?
La dottoressa Tiziana Cristofari pedagogista e docente, con l’aiuto tratto da teorie e prassi di eminenti e riconosciuti studiosi in pedagogia, psicologia e psichiatria - tra i quali Giovanni Genovesi, Shinichi Suzuki, Howard Gardner, Lev Semënovič Vygotskij, Massimo Fagioli -, ha dimostrato come sia ampiamente improbabile che i disturbi specifici dell’apprendimento abbiano origine genetica o neurobiologica e come invece siano il frutto dell’assenza totale di pedagogia scolastica e familiare.
Codice ISBN: 9791220015424
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