Si dice spesso che quando un adulto diventa anzian@, torna a essere un po’ bambin@, soprattutto in riferimento all’indipendenza: il suo movimento richiede tempi più lunghi, i nostri gesti devono essere più delicati, hanno bisogno di essere ascoltati.
In realtà però non ci si sofferma mai a considerare che anche il loro pensiero torna ad avere delle esigenze che sono diverse, perché l’anzian@ è altro rispetto all’adulto.
E quando il pensiero cambia, anche la situazione intorno a lei/lui deve cambiare, altrimenti potrebbero innescarsi meccanismi di autodifesa che lo/la portano a lasciarsi andare, fino al punto da inficiare al sua stessa autonomia.
Quando un anziano comincia a pensare di non essere più efficiente come prima, di non essere più utile alla famiglia, di non meritare più la loro attenzione perché i giovani sono sempre troppo indaffarati, allora succede qualcosa nel loro pensiero che inibisce anche ciò che potrebbero fare tranquillamente in autonomia e lentamente si spengono. I figli vedono giorno dopo giorno i loro padri e le loro madri chiudersi alla vita e lo fanno perdendo la vitalità che fino a poco tempo prima dimostravano. Una vitalità che non dovrebbe spegnersi fino alla fine dei loro giorni, perché non corrisponde all’energia fisica, ma piuttosto a quella psichica che se mantenuta in buona salute e attiva permette alle donne e agli uomini della terza età di continuare a godersi la vita.
Eppure per molti di loro che perdono la vitalità basterebbe davvero poco. Devono riuscire a ritrovare la motivazione per sentirsi ancora in gioco, ma soprattutto la devono ritrovare negli affetti che non appartengono esclusivamente alla sfera familiare. Per molti di loro la pedagogia può fare tantissimo perché è in grado di costruire attraverso un progetto pedagogico la motivazione per andare avanti e ritrovare l’entusiasmo di fare. Vi racconto una mia esperienza per spiegarvi quanto vi sto dicendo.
«Fui chiamata da una conoscente a fare un progetto educativo per un’anziana signora allettata da mesi. In poche settimane la donna aveva perso ogni interesse ad alzarsi dal letto, lavarsi, mangiare a tavola con gli altri, fare altro. Seppur senza particolari impedimenti di salute, pretendeva che gli altri la pulissero, le portassero da mangiare a letto e addirittura la cambiassero perché lei sosteneva di non essere più in grado di andare neppure in bagno da sola.
Passai con la donna qualche ora la prima giornata. Mentre mi raccontava del suo passato mi chiedeva anche perché fossi lì ad ascoltare le sue chiacchiere dato che lei non mi conosceva. Le risposi che ero un’amica di famiglia, molto interessata a quello che aveva fatto nel passato e che avrei voluto sapere tutto ciò che era stata. Ma il mio interesse non era solo a parole, io l’ascoltavo veramente, cioè interloquivo con lei facendole domande quando non capivo o cercando di approfondire quanto lei mi raccontava. Cercai anche di capire con lei e attraverso i suoi familiari, perché da un giorno all’altro non avesse più fatto tutte quelle cose che la rendevano indipendente e scoprii un enorme vuoto affettivo intorno a lei; così si era letteralmente lasciata andare. Ma non solo. Chi le stava intorno si era automaticamente convinto di ciò che la donna continuava a dire: ovvero di non essere in grado di alzarsi dal letto per nessun motivo. Compresi così che quella rinuncia ad alzarsi fosse solo una richiesta di attenzione, diversa ma simile alla modalità spesso utilizzata dai bambini quando si sentono soli. Ma la sensazione forte che mi trasmetteva l’ambiente, gli adulti intorno a lei era che facesse addirittura comodo a tutti loro che la donna non si alzasse; ma nessuno naturalmente ne era consapevole.
La incontrai più volte, passai con lei diverso tempo, l’ascoltai moltissimo e cercai di costruire una relazione di fiducia permettendole di soddisfare il suo desiderio di essere ascoltata, capita, di essere ancora accolta. In seguito, quando percepii che si fidava di me, piano piano le chiesi di fare piccole cose che mi avrebbero fatto piacere quali ad esempio mangiare insieme.
Il progetto educativo, oltre che sulla diretta relazione con me, poggiava su una nuova realtà di affetti con le persone che le ruotavano intorno. Avevo chiesto alla famiglia il rispetto del progetto alla lettera; diversamente non avrebbe avuto il suo successo. Molti di loro volevano veramente che la signora ritornasse in qualche modo ad essere quella di prima, autosufficiente, proprio perché nulla dal punto di vista medico le impediva di esserlo.
È stato con un progetto educativo di rivalutazione delle relazioni, del pensiero errato che i parenti si erano costruiti sulla donna, delle attività che la signora avrebbe potuto ancora fare sia dal punto di vista cognitivo che pratico, a far modificare l’atteggiamento e la vitalità della signora, che solo dopo una settimana era nuovamente seduta a tavola a mangiare e a provvedere a se stessa»*.
dr.ssa Tiziana Cristofari
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* Estratto da: T. Cristofari, Cos’è l’educazione e come si educa. Perché si ammalano i nostri bambini, in corso di stampa.