Credo che a tutti noi sia capitato di trovare un professionista che non ci piace o al contrario uno che ci piace tanto. A pelle, durante l’incontro, proviamo a sentire chi abbiamo davanti e il giudizio che facciamo di lui o di lei è il frutto di ciò che siamo, ciò che sappiamo e di come ci relazioniamo.
Ma quello che spesso non pensiamo e che a volte purtroppo succede, è che — a prescindere dal generico giudizio è bravo o non è bravo (dato in base alla sua fama sociale o ai risultati ottenuti con altri utenti) —, ci facciamo un’idea dell’altro in base a ciò che noi siamo e a ciò che desideriamo sentirci dire, più che ascoltare ciò che l’altro ha da dirci. Per chiarezza: non è sempre così. Ma quando ci capita di dover comunicare con un esperto nei settori spesso poco conosciuti, o che al contrario, pensiamo di conoscere bene, dovremmo essere capaci innanzitutto di ascoltare, senza prevenzione e senza costruzione mentale su ciò che vorremmo ci dicesse o meno.
Per fare un esempio legato alla mia professione ed esperienza come pedagogista,
mi è capitato a volte di ricevere genitori che vogliono solo sentirsi dire che il proprio figlio non ha nessun problema a scuola e che l’insegnante non capisce nulla del proprio pargolo. Tenendo in considerazione l’ipotesi che potrebbe essere anche così, è mio ovvio compito approfondire andando oltre ciò che il genitore mi racconta in buona fede. Una buona fede che però a volte nasconde un’incapacità di guardarsi dentro e vedere cosa nel proprio rapporto con il figlio o la figlia, non funziona; spesso nasconde la paura, spesso il risentimento e/o la rabbia verso i figli o verso la società che giudica. Tutto questo li rende incapaci di cogliere la possibilità che loro stessi si sono cercati venendo al mio studio, per uscire fuori da situazioni spiacevoli come appunto, un figlio che non va bene a scuola.
mi è capitato a volte di ricevere genitori che vogliono solo sentirsi dire che il proprio figlio non ha nessun problema a scuola e che l’insegnante non capisce nulla del proprio pargolo. Tenendo in considerazione l’ipotesi che potrebbe essere anche così, è mio ovvio compito approfondire andando oltre ciò che il genitore mi racconta in buona fede. Una buona fede che però a volte nasconde un’incapacità di guardarsi dentro e vedere cosa nel proprio rapporto con il figlio o la figlia, non funziona; spesso nasconde la paura, spesso il risentimento e/o la rabbia verso i figli o verso la società che giudica. Tutto questo li rende incapaci di cogliere la possibilità che loro stessi si sono cercati venendo al mio studio, per uscire fuori da situazioni spiacevoli come appunto, un figlio che non va bene a scuola.
Quando si parla di relazioni non è mai un argomento scontato. Quando si parla di figli e del loro rendimento scolastico non è mai facile comprendere perché il “nostro” non raggiunge gli stessi risultati degli altri, e per questo spesso i genitori si fanno prendere dalla paura, dalla rabbia, dall’angoscia, ma anche dalla voglia che qualcuno possa dir loro esplicitamente che la propria bambina non ha nessun problema.
Ma il problema c’è, altrimenti il bambino andrebbe bene a scuola e loro non si presenterebbero al mio studio — anche se poi il problema non è di natura neuropsichiatrica, né genetica, come però spesso inconsciamente sperano, perché se ha un problema neurologico o genetico il genitore si sente assolto dal farsi carico del problema stesso, che demanderà a un altro specialista o a una certificazione.
I genitori devo avere il coraggio di affrontare la situazione perché il problema è di natura relazionale, pedagogica, didattica, educativa: anche se non si vuole accettare. Anche perché tutto questo implica uno sforzo da parte della famiglia, che deve imparare a guardare i propri figli in modo diverso e a relazionarsi diversamente. Quindi un problema c’è, ma di natura affettiva-relazionale-pedagogica e da qui non si può scappare.
A questo punto spesso succede che il professionista non ci piace, perché non ci ha detto ciò che avremmo voluto sentirci dire; e non ci piace perché non ci permette di deresponsabilizzarci.
Per fare un altro esempio. Conobbi un bambino che a me sembrava evidente avesse problemi di vista. Un problema con la vista spesso diventa un problema anche a scuola, ad esempio per riuscire a vedere le cose che l’insegnante scrive alla lavagna. Così ne informai la madre che fece fare la visita al suo bambino. La diagnosi fu peggiore delle aspettative e in virtù di questo, la madre, non accettando il referto, lo portò da un altro oculista che disse lei ciò che voleva sentirsi dire: ovvero che il bambino era troppo piccolo per definire il problema sollevato dal collega. Il risultato però fu che il bambino in breve tempo peggiorò fino quasi a diventare cieco.
Allora, è chiaro che le diagnosi sbagliate ce ne sono tantissime, forse troppe, ed è giusto chiedere più pareri agli esperti. Però quello che vorrei dire è che, è meglio una realtà dura ma che ti permette di affrontare il problema, anziché sperare che il tempo faccia la sua parte, o peggio ancora, scaricare il problema su qualcun altro.
Vorrei ricordare a tutti quei genitori che hanno bambini con difficoltà scolastiche, che ci sono due realtà da tenere presente nella consulenza di accertamento medica o pedagogica che sia:
- la diagnosi errata di apprendimento, ovvero una diagnosi senza lesione organica (neurobiologica) o comprovata alterazione genica, porta solo a un ritardo ulteriore nell’apprendimento, in quanto è imputata una lesione dell’immagine interna (ovvero del pensiero) del bambino che si forma su base relazionale e che quindi, data la plasticità del pensiero umano in età preadolescenziale, sarebbe superabile con una corretta relazione senza alcun intervento medico. Il bambino che si sente diverso invece, perché seguito da un docente di sostegno o perché fa compiti diversi, si sentirà escluso, deprivato, sottostimato, ridicolizzato e pertanto si autoconvincerà che non può fare… e non farà, rallentando ancora di più il suo apprendimento e autoconfermando il mondo adulto della sua deficienza (che però non possiede).
- la difficoltà scolastica se c’è è un problema, e deve essere risolto con una prassi adeguata che riguarda la relazione e il metodo didattico;
Quello di cui hanno bisogno i bambini con difficoltà scolastiche (le cosiddette dislessia, discalculia, disortografia, disgrafia) è valutare su base pedagogica la relazione familiare, la relazione docente-discente e valutare la carenza effettiva delle materie scolastiche e le modalità di apprendimento con specifiche pratiche didattiche/pedagogiche. Tutto ciò è competenza del pedagogista che saprà indirizzare la famiglia capace di mettersi in discussione, verso relazioni più idonee con i loro figli e verso la giusta pedagogia e didattica.
Amare non è scontato; amare è vedere ciò che si fa, come lo si fa e come lo si potrebbe fare meglio!
Dr.ssa Tiziana Cristofari
©Tutti i diritti riservati
Il libro è reperibile
Un titolo e un contenuto sicuramente contro tendenza, dato che libri e manuali sull’argomento parlano solo di come riconoscere i disturbi dell'apprendimento e quali sono gli strumenti dispensativi e/o compensativi per sostenere una realtà che, secondo la maggioranza della comunità scientifica, non ha soluzione in quanto i disturbi sarebbero causati da fattori genetici o neurobiologici.
Nel mio libro affronto scientificamente tutti questi argomenti e li smonto uno per uno dimostrando come sia improbabile quanto viene affermato. Ma soprattutto spiegando perché la comunità scientifica non ha ancora compreso o voluto comprendere, che questi “disturbi” mettono radici lì dove la scuola e la famiglia crescono figli e studenti senza una pedagogia adeguata.
Descrizione del libro
È intelligentissimo, ma il maestro mi dice che non ascolta. Legge stentatamente e la maestra mi ha detto che potrebbe essere dislessica. Non ricorda le tabelline e mi hanno detto che potrebbe essere discalculico. Mi hanno consigliato il logopedista. Mi hanno detto che dovrei portare mia figlia a fare una visita dalla neuropsichiatra infantile. Poi ho letto un suo articolo... Poi cercando su internet il significato di queste parole mi sono imbattuta nel suo sito…
È con le stesse parole che un papà arriva da una pedagogista che ha trovato la soluzione ai disturbi specifici dell’apprendimento. Inizialmente scettico, ma speranzoso — perché sua figlia, presunta dislessica, ha difficoltà relazionali con lui e un calo del rendimento scolastico —, s’imbatte in un’avventura scientifica, realistica e umana senza precedenti. Andrà alla scoperta del pensiero di medici e pedagogisti di fama mondiale che gli spiegheranno perché quello che comunemente si racconta sui disturbi dell’apprendimento non è realistico, trovandosi così involontariamente alla ricerca di una conoscenza genetica, neurobiologica, psicologica e soprattutto pedagogica di cui era profondamente allo scuro come del resto buona parte della comunità scientifica ed educativa.
Riuscirà in questo modo a capire come nascono, come si prevengono e come si superano i disturbi dell’apprendimento. Ma soprattutto imparerà come è possibile evitarli con l’applicazione di una scienza che nel tempo è stata annullata dalla politica e negata nella formazione dei nuovi docenti: la scienza pedagogica.
Oggi il 25% dei bambini di una classe viene diagnosticato con un disturbo dell’apprendimento. Dicono che il problema è genetico o neurobiologico e per questo non si può far nulla se non dispensare e/o compensare. E se così non fosse?
La dottoressa Tiziana Cristofari pedagogista e docente, con l’aiuto tratto da teorie e prassi di eminenti e riconosciuti studiosi in pedagogia, psicologia e psichiatria — tra i quali Giovanni Genovesi, Shinichi Suzuki, Howard Gardner, Lev Semënovič Vygotskij, Massimo Fagioli —, ha dimostrato come sia ampiamente improbabile che i disturbi specifici dell’apprendimento abbiano origine genetica o neurobiologica e come invece siano il frutto dell’assenza totale di pedagogia scolastica e familiare.
Codice ISBN: 9791220015424