Erano anni che non mi allettavo come questo fine 2017. Ho cominciato a metà dicembre con vertigini e nausea, poi sono andata a star meglio fino a quando non è giunta anche l’influenza che mi ha tenuto compagnia con tutti i postumi fino a dopo Capodanno. Nel frattempo a livello politico c’è stata una svolta epocale per la mia professione (riconoscimento del ruolo dei Pedagogisti e degli Educatori) con la Legge 205/2017 che, lo ammetto, solo negli ultimi giorni riesco a prenderne pienamente atto e a riconoscermi la portata di quanto andavo aspettando da anni insieme a tantissimi altri professionisti come me.
Nel frattempo così, tra una dormita di troppo e un mal di testa ho potuto riflettere sul discorso della professionalità che la legge riconosce a determinate categorie di laureati. Nel nostro caso la Legge 205/2017 dichiara che per svolgere un certo tipo di lavoro devi essere qualificata possedendo una determinata istruzione, ovvero un pezzo di carta, un titolo che ti rende “abilitato”.
Ed ecco che uno pensa che un’influenza sia solo un’influenza e che disturba il quotidiano e che devi solo rassegnarti e aspettare che tutto passi. Ma per le mie a volte fastidiose elucubrazioni sui perché e sui percome della vita e del lavoro, ammetto che è servita anche questa esperienza quasi (fortunatamente) da troppo tempo dimenticata.
Come era ovvio che fosse gli ingordi del mondo del web non ci hanno pensato due volte a farsi sentire con tutte le cattiverie del caso anche per quanto riguarda il riconoscimento del nostro ruolo: va bene poverini, altrimenti perdono l’abitudine! Ma in qualche modo mi hanno fatto riflettere e in virtù di questo vorrei condividere con voi questa riflessione che non ci dovrebbe mai permettere di abbassare la guardia quando facciamo riferimento a un professionista.
Sì, ok è bellissimo che le istituzioni ci abbiamo riconosciuto il ruolo e lo abbiano riconosciuto a livello apicale (per i Pedagogisti) facendo probabilmente rosicare qualcuno. Difatti oggi su Facebook leggevo: “Se decido di insegnare SONO un’insegnante e non c’è pedagogia che tenga!” Mi sono venuti i brividi! La saccenza, l’arroganza e la presunzione sono senza limiti e confini e questi dovrebbero essere i nostri insegnanti?! Certo, non tutto è dato dalla laurea. Per avere un’identità professionale bisogna conoscere fino in fondo la propria professione e come diceva il grande Massimo Fagioli*, bisogna saper essere prima di tutto esseri umani. E sicuramente chi denigra e insulta non ha una identità professionale e di insegnanti così, purtroppo, ce ne sono moltissimi.
Ma vi spiego meglio e intanto vi faccio fare due risate. Al primo malessere di metà dicembre ho chiamato un medico privatamente perché il mio non ha voluto sapere di venire a visitarmi: no comment. Stavo malissimo, ma il dr. Raffaele, dopo aver preso € 150,00 per dieci minuti di visita e senza togliersi il cappellino che indossava nemmeno fossi un’appestata dalla quale allontanarsi il prima possibile, ha pensato che fosse più sicuro sollevarsi delle responsabilità e chiamare addirittura l’ambulanza. Mi sono detta: “Si è spaventato, infondo era molto giovane… Oppure no? Fosse che gli mancava quella identità professionale che fa la differenza tra chi lavora e basta e chi conosce invece il proprio lavoro?” La dottoressa dell’ambulanza appena mi ha vista, mi ha rassicurata dicendomi che i sintomi che riportavo non davano seguito ad alcun problema neurologico. Mi ha detto semplicemente di non rimanere sola e la questione si è risolta.
Dopo una settimana stavo nuovamente a letto, stavolta con l’influenza. Bene, devo aver pensato. Sotto le feste posso chiamare la guardia medica. Con trentanove di febbre, la solitudine che non aiuta a rassicurare, faccio questa prima telefonata alla guardia medica. Dall’altra parte risponde un uomo che al mio: “Buongiorno, ho da due giorni trentanove di febbre…” Senza neppure farmi finire di parlare risponde: “Non si preoccupi signora è influenza, c’è mezza Roma a letto…” E mi ha tappato la bocca anche perché con quella temperatura anche le parole che volevano uscire sono tornate indietro. Terzo giorno stessa febbre, chiamo nuovamente la guardia medica. E l’ho fatto non perché non avessi creduto al precedente medico, ma semplicemente perché avevo bisogno che qualcuno mi rassicurasse sul decorso di quell’influenza, dato che non potevo condividere con nessuno il mio malessere e in certe situazioni la condivisione è tutto, anche per una donna di 45 anni che generalmente se la cava da sola. Ma questo dottore al mio “Buongiorno ho la febbre a trentanove da tre giorni...” mi ha risposto: “Beh! neanche tanto signora, hanno chiamato persone con 40 di febbre!” Immaginate i miei pensieri in quel momento: erano fortunatamente l’unica cosa di me ancora pienamente cosciente e reattiva. Gli ho risposto che la prossima volta avrei chiamato prima di morire e ho riattaccato!
Dopo tre giorni senza la febbre ero talmente debole che non stavo in piedi: sfido, non mangiavo da sei giorni! Ho richiamato la guardia medica perché mi consigliasse la cura ricostituente più idonea. Almeno per questo pensavo di averne diritto, o dobbiamo essere tutti anche bravi medici di noi stessi? A quel punto mi rispose una donna che per la prima volta, prima ancora che cominciassi a parlare, mi chiese quale fosse il mio nome e la mia età, dove vivessi. Si prese del tempo per capire quale fosse la mia richiesta e per spiegarmi quali fossero gli integratori più idonei e l’alimentazione più corretta perché riprendessi le forze dall’influenza. Finalmente qualcuno aveva avuto voglia di starmi a sentire. Aveva capito che al telefono c’era un essere umano prima ancora che la malattia e che non ero una fra tanti, ma ero io Tiziana Cristofari e per quella dottoressa io, seppur sconosciuta, ero qualcuno.
Morale di tutta questa storia: le persone (donne e uomini) con cui ho parlato erano tutti laureati in medicina. Erano tutti medici sul pezzo di carta, avevano svolto gli stessi studi ed erano abilitati ad effettuare il medesimo compito; ma solo due hanno saputo avere anche una identità professionale esprimendo al meglio e nel modo più adatto ciò che sui libri avevano imparato. Perché se è vero che la medicina serve alla cura della malattia, è pur vero che ogni medico deve saper affrontare adeguatamente ogni alterazione del corpo umano a partire anche dalla realtà psicologica del paziente (probabilmente la realtà più importante per una pronta guarigione). Ma non per questo tutti i medici devono essere psicologi: dovrebbero invece saper essere esseri umani e avere una forte identità professionale.
È vero. Noi Pedagogisti ed Educatori dal 1° gennaio 2018 siamo esperti certificati e riconosciuti, dovremmo saper gestire tutte le situazioni di crisi e non di crisi che insorgono a scuola e in famiglia su questioni formative e pedagogiche-educative, guardando ai bambini, ai diversamente abili, agli adolescenti, agli anziani, all’uomo in generale con quella specifica attenzione anche alla loro realtà psichica che fa del nostro mestiere una nostra fondamentale competenza umana. Ma quanti di noi possono realmente dire di avere un’identità professionale ed essere capaci di essere esseri umani?
Dr.ssa Tiziana Cristofari
© Tutti i diritti riservati
*M.Fagioli, Istinto di morte e conoscenza, L'asino d'oro edizioni
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Un titolo e un contenuto sicuramente contro tendenza, dato che libri e manuali sull’argomento parlano solo di come riconoscere i disturbi dell'apprendimento e quali sono gli strumenti dispensativi e/o compensativi per sostenere una realtà che, secondo la maggioranza della comunità scientifica, non ha soluzione in quanto i disturbi sarebbero causati da fattori genetici o neurobiologici.
Nel mio libro affronto scientificamente tutti questi argomenti e li smonto uno per uno dimostrando come sia improbabile quanto viene affermato. Ma soprattutto spiegando perché la comunità scientifica non ha ancora compreso o voluto comprendere, che questi “disturbi” mettono radici lì dove la scuola e la famiglia crescono figli e studenti senza una pedagogia adeguata.
Codice ISBN: 9791220015424
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